Nella riunione generale dell’organizzazione NATO tenuta a l’Aia il 26 giugno scorso, è stato preso l’impegno, da parte dei Paesi aderenti, con decisione quasi unanime (senza la Spagna), di portare la vera e propria spesa militare al 3,5% del PIL, mentre l’1,5 % aggiuntivo è in generici investimenti nella sicurezza.
Si tratta di una spesa assai rilevante che avrà come conseguenza quasi certa l’aumento dell’indebitamento nazionale, aumento che resta tale anche se detta spesa è posta fuori dal vincolo del non superamento del 3% sul disavanzo, come imposto dalla UE. Mi pare, inoltre, che anche nel caso di investimenti comunitari, i relativi interessi e le quote di ammortamento sarebbero, certo, sostenuti dal budget della UE, che, tuttavia, è finanziato dai contributi degli Stati membri, con annessi dazi doganali e parte dell’IVA. Quindi, alla fine, graverebbero sostanzialmente sui bilanci di questi ultimi. Altrimenti, ove non si voglia ricorrere all’indebitamento, l’aumento della spesa militare comporterà necessariamente il forte ridimensionamento di altre voci di spesa (scuola, sanità, ricerca, transizione verde, ecc.).
Allora per giustificarsi di fronte ad un’opinione pubblica preoccupata, e tendenzialmente ostile a tale impegno, i vertici europei dicono che, per ogni Paese, la difesa è sempre una priorità se si vogliono evitare aggressioni, perdita dell’indipendenza e della libertà.
È una giusta considerazione, se detta spesa non va oltre quanto è necessario per fronteggiare pericoli reali.
Essendo il PIL dell’insieme dei 27 Paesi della UE pari a 17.000 miliardi di dollari, la spesa militare, portandola al 3,5% del PIL, risulterà pari a 595 miliardi di dollari. Si tratta di una spesa che condurrebbe la UE a contendere alla Cina il secondo posto nella graduatoria mondiale, mentre già la spesa militare della sola Germania ne farebbe la prima potenza militare del continente europeo. La Russia sarebbe largamente distanziata dalla UE.
Tenuto conto che la progettata ingente spesa militare della UE è motivata dalla sola necessità difensiva, occorre indicare da dove provengano i pericoli da cui proteggersi, e quanta spesa sia necessaria per contrastarli efficacemente.
In argomento, sono stati indicati vari pericoli fra i quali: difendere il fianco Sud dell’Europa (ma da chi?); combattere il terrorismo (che richiede ben altri mezzi piuttosto che il ricorso a un possente esercito); garantire le vie di comunicazioni marittime, come oggi avviene nel Mar Rosso (ma le attuali flotte dei Paesi dell’Unione con quella britannica paiono essere più che adeguate); contrastare le ambizioni espansive della Cina (che è lontana, e con la quale la competizione è commerciale e tecnologica piuttosto che di ordine militare). Quindi il solo motivo che può giustificare un ingente aumento della spesa militare riguarda il fronte orientale, ovvero la Russia, a seguito dell’invasione del territorio ucraino.
In tale caso, l’entità del riarmo europeo andrebbe commisurata alla consistenza effettiva del peso militare russo.
Questo non pare così rilevante come è opinione diffusa in Europa. La Russia non sarà una “tigre di carta”, come ha detto Trump, poiché è una potenza nucleare, ma proprio in Ucraina ha mostrato tutta la debolezza delle sue forze militari convenzionali, non essendo riuscita, in più di tre anni, a conquistare tutto il Donbass, quando il primitivo obiettivo era, con una operazione lampo, piegare Kiev alle sue richieste.
Inoltre, per condurre la temuta strategia offensiva nei confronti dell’Europa comunitaria, la Russia dovrebbe disporre di una spesa militare almeno pari a quella della UE, a cui sommare 120 miliardi di dollari della spesa del Regno Unito (portata 3,5% del PIL), sempre che gli USA non vogliano impegnarsi nel nostro continente. Tuttavia, con un PIL di poco più di 2.000 miliardi di dollari, per sostenere un conflitto con la NATO europea, Mosca dovrebbe destinare alla spesa militare – se non oggi, domani – oltre 700 miliardi di dollari, una cifra corrispondente al 35% del suo PIL, percentuale insostenibile per la Russia, come per qualunque altro Paese.
Portare, pertanto, la spesa militare della UE al 3,5% del PIL non risponde alla sola esigenza difensiva riguardante il pericolo russo. Ci sono evidentemente altri motivi.
In una recente intervista, il ministro Crosetto ha riconosciuto che le motivazioni all’origine della creazione della NATO (contenere l’Unione Sovietica) non sono più attuali, ed è quindi necessario ampliare i compiti dell’alleanza dall’ambito europeo a più ampi spazi. Di un allargamento dei compiti dell’alleanza, ne era stato già stato trattato in occasioni precedenti (in una riunione NATO del luglio del 2022). Pertanto, coloro che hanno fatto proprio tale disegno, a partire dal ministro, ci dovrebbero spiegare in che cosa consiste il sopraddetto allargamento, e le ragioni che ne stanno alla base.
Una più concreta giustificazione dell’incremento della spesa militare è riconducibile alla diffusa opinione che, dietro all’impegno europeo di portarla al 3,5% del PIL, ci siano soprattutto le pressioni dell’industria degli armamenti, in particolare di quella statunitense. Inoltre, nei governi europei, si è imposta l’idea che la spesa militare possa contribuire al rilancio dell’economia, nella convinzione che, con il potenziamento delle imprese operanti nel settore, si creerà occupazione, compensando la perdita di posti di lavoro causata dalla crisi dell’industria automobilistica. La Germania in particolare considera vitale questa opzione, dato che la crisi di quest’ultimo settore ha pesanti ricadute sull’assetto economico-produttivo del Paese, con esiti destabilizzanti l’intero quadro politico.
Ora, pur mettendo da parte le considerazioni di ordine etico riguardo alla produzione di armi per motivi meramente economici, sarebbe comunque saggio prendere in considerazione alternative alla spesa militare per sostenere l’occupazione, fra le quali investire nella transizione energetica, nella riqualificazione di un territorio degradato, nel rinnovo di un patrimonio edilizio sovente non a norma in tema di sicurezza, e nel potenziamento del trasporto pubblico nelle aree metropolitane. E ciò anche in ragione del fatto che, con l’imposizione di Trump alla UE di acquistare armamenti made in USA per 600 miliardi di dollari, resti incerto quanto spazio possa rimanere per l’industria europea operante nel settore.
C’è infine una terza più preoccupante motivazione. Mentre Trump, sia pure con metodi poco diplomatici, cerca di ottenere la fine delle varie guerre in corso, agitando il bastone e la carota in faccia a tutti i contendenti, mi chiedo dove possa condurre la strategia adottata dai Paesi NATO europei riguardo alla Russia. In un clima di demonizzazione del nuovo nemico, e avendo fatte proprie tutte le rivendicazioni di Kiev, si sono, di fatto, autoesclusi da ogni ruolo di mediazione in vista di realistici accordi armistiziali, e di una pace di compromesso. Infatti, la invocata “pace giusta” (nessuna modificazione dei confini; nessuna limitazione a Kiev nella sottoscrizione di alleanze, anche militari; fare carico alla Russia dei costi per la ricostruzione di quanto distrutto in Ucraina) può essere ottenuta solo con la sconfitta della Russia e implica, di conseguenza, la continuazione della guerra. Senza mezzi termini, Kaja Kallas (rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza), ha più volte ripetuto che “l’Ucraina deve vincere questa guerra”. Ma, si tratta di un obiettivo non raggiungibile dalla sola Ucraina, che pertanto richiede il diretto coinvolgimento militare dei Paesi europei della NATO. Un coinvolgimento possibile, perché, al di là di quanto afferma la propaganda (una Russia pronta ad occupare l’Europa fino al Portogallo), si fa strada, nei vertici dei Paesi europei della NATO, la percezione della sostanziale debolezza militare russa, e il convincimento della fattibilità di un loro diretto intervento militare sul fronte ucraino, che consentirebbe di ottenere la sconfitta di Mosca.
Temo quindi che, riguardo alla Russia, non si possa più parlare di spesa destinata alla difesa, ma piuttosto volta a sostenere un diretto confronto militare, anche se non oggi (perché, alla già pur rilevante spesa militare del complesso dei Paesi dell’Unione, non corrisponde ancora una significativa capacità operativa per la scarsa integrazione ed organizzazione delle forze disponibili), ma certo domani, allorché, con la spesa al 3,5% del PIL, detti Paesi potranno disporre di forze adeguate, fra esse coordinate. Alcuni esponenti dei Paesi “volenterosi” ritengono che, prima o poi, si debba comunque giungere ad un confronto militare con la Federazione Russa, indipendentemente dal raggiungimento o meno, di una pace in Ucraina, ottenuta con una mediazione americana. Vedi le dichiarazioni dei primi ministri Merz, tedesco, Starmer, britannico, e Tusk, polacco.
Ma, attenzione! Perché la Russia, ancorché non avesse idonee forze militari convenzionali per sostenere un confronto con una NATO europea riarmata, qualora si sentisse minacciata di sconfitta, potrebbe, come ultima risorsa, ricorrere ad armi nucleari “tattiche”, con tutto quanto di disastroso ne deriverebbe. Ciò anche se è opinione di esperti di cose militari che la deterrenza nucleare di Mosca stia perdendo di credibilità, perché il ricorso a strumenti di tale natura non lascerebbe indifferente l’America, senza dimenticare che la Francia e il Regno Unito già posseggono complessivamente ben 515 testate nucleari pronte all’uso.
Ci troviamo quindi di fronte ad una guerra che, da regionale, potrebbe trasformarsi in qualche cosa di molto più vasto, se non mondiale.
I governi dei Paesi dell’Unione e il vertice di questa dovrebbero definire, e dire con chiarezza, quale obiettivo politico, diplomatico e strategico si pongono in Europa, per superare la spaccatura (che fa male a tutti) creatasi con la nuova “guerra fredda”. Oggi, invece, sembrano mossi solo da ragioni ideologiche (la democrazia contro l’autoritarismo; il Bene contro il Male) che li pongono fuori dalla realtà.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su www.associazionepopolari.it