La legge di bilancio per il 2026 si presenta come una manovra di continuità più che di rilancio. Il Governo ha scelto di confermare, ma non di potenziare, gli strumenti già esistenti per il Mezzogiorno. Il credito d’imposta per le imprese nelle Zone Economiche Speciali viene rifinanziato, ma con risorse limitate rispetto alle attese: poco più di due miliardi, a fronte di un fabbisogno ben più ampio.

Nessuna misura nuova per infrastrutture, trasporti, innovazione o per contrastare la fuga dei giovani laureati. Insomma, una manovra prudente, attenta ai conti pubblici, ma povera di visione strategica per il Sud. A dispetto delle parole spese sul “rilancio del Mezzogiorno”, la parte meridionale del Paese resta ai margini del grande cantiere nazionale della crescita.

I sindaci delle principali città meridionali parlano di «occasioni mancate» e persino alcune associazioni imprenditoriali, tradizionalmente caute nelle critiche, lamentano la mancanza di una politica industriale dedicata.

Giovani costretti a partire e salari fermi

L’altra grande questione è quella del lavoro. Nel Mezzogiorno gli stipendi medi restano tra i più bassi d’Europa, spesso inferiori del 30-40% rispetto alla media continentale. È un dato che non riguarda solo i lavori a bassa qualificazione, ma anche i profili tecnici e professionali, che altrove sarebbero ben retribuiti. Non stupisce, dunque, che tanti giovani – soprattutto i più preparati e intraprendenti – scelgano di emigrare verso il Nord Italia, l’Europa o persino oltre.

Quella che un tempo si chiamava “fuga dei cervelli” è diventata un vero e proprio drenaggio di energie e competenze. Il Sud investe nella formazione dei propri ragazzi, ma non riesce a trattenerli. E la manovra per il 2026 non prevede incentivi mirati per il rientro dei giovani, né politiche di sostegno al lavoro qualificato nel Mezzogiorno. Si continua a parlare di “divario territoriale”, ma la distanza cresce, anno dopo anno, anche per mancanza di coraggio politico e di una visione a lungo termine.

Pensioni minime e inflazione: il peso della povertà

A peggiorare il quadro c’è un’inflazione che, soprattutto al Sud, continua a erodere i redditi fissi e le pensioni. Molte famiglie sopravvivono grazie all’assegno dei genitori o dei nonni, diventato ormai l’unica fonte di reddito stabile. Eppure, l’annunciato aumento delle pensioni si ridurrà a un incremento medio di appena 20 euro al mese per gli assegni più bassi: una cifra che, di fronte all’aumento del costo della vita, appare quasi simbolica. Né la manovra contiene misure incisive per contrastare la povertà crescente o per sostenere i servizi sociali nei piccoli comuni, spesso privi di risorse.

Il Mezzogiorno, in molte sue aree interne, rischia di trasformarsi in un arcipelago di periferie dimenticate, dove lo Stato è presente solo con qualche bonus temporaneo o con fondi difficili da spendere. La manovra del 2026 avrebbe potuto segnare una svolta, dando finalmente al Sud un ruolo da protagonista nella crescita nazionale. Invece, sembra limitarsi a un prudente “tirare a campare”. Nessuna misura contro la desertificazione industriale, nessuna strategia per la mobilità o per l’energia, nessun piano serio per trattenere i giovani. Il risultato è un sentimento diffuso di delusione: non rabbia, ma stanchezza. Quella di chi continua a sentirsi ai margini del Paese, pur vivendo in territori che rappresentano il cuore storico e culturale dell’Italia. E così il Mezzogiorno, ancora una volta, resta in attesa di un futuro che non arriva, mentre le sue migliori energie prendono la via del Nord o di altre ben più ricche nazioni.

Michele Rutigliano

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