Il governo Draghi ha, in buona misura, condotto o sta conducendo in porto i punti programmatici fondamentali che hanno giustificato la formazione di una maggioranza, che sarebbe arduo definire di “unità nazionale” – cosa che, in effetti, manifestamente non è – ma piuttosto rispondente ad una condizione di emergenza che esige una sorta di esecutivo di “salute pubblica”.
Soluzione che, non a caso, è stata resa possibile, anzitutto, dalla forte sollecitazione del Presidente della Repubblica e dall’ invito a sospendere ogni qualificazione di ordine prettamente “politico”, evidentemente inattingibile da parte di un arco di forze divaricate, per quanto chiamate a concorrere alla formazione della maggioranza parlamentare.
Non ci deve sorprendere se, intanto che procede la campagna di vaccinazione ed una volta recapitato a Bruxelles il Recovery plan, da una decina di giorni a questa parte, si va manifestando una tensione crescente, segnatamente tra Lega e Pd, cioè le due forze che meglio incarnano lo spirito dei rispettivi schieramenti. Per ora si tratta, per lo più, di provocazioni incrociate, un po’ come quegli incidenti di frontiera che, nel secolo scorso, uno Stato creava ad arte per accrescere la tensione e costringere il Paese confinante ad una reazione che, alla fin fine, giustificasse l’ intervento militare e l’ invasione del territorio nemico.
Il fatto è che, a mano a mano, ci inoltriamo – per quanto siamo appena ai primi timidi passi – nel percorso di riforme che l’UE esige per aprire i cordoni della borsa. Vuol dire che stiamo passando dal “programma” al “progetto”. Nel linguaggio corrente spesso usiamo questi termini come sinonimi, eppure non sono affatto la stessa cosa.
Il ”programma” idealmente dovrebbe essere la traduzione in concrete “azioni” che il governo dispone, pur secondo una opportuna gradazione dei tempi, delle linee operative di un progetto “politico”. Inteso quest’ ultimo come visione complessiva e disegno che si qualifica in funzione della direzione di marcia, dell’indirizzo che intende imprimere ad un certo contesto civile, suggerendo un senso compiuto che ne orienti lo sviluppo, dotandolo delle risorse necessarie a non restare un nobile auspicio scritto sulla carta.
Insomma, un’idea direttiva, quella “cifra”, quel punto di sintesi e di orientamento che rappresenta il momento, il luogo tematico attorno a cui la partecipazione democratica trova la sua vera ragion d’essere e senza la quale, i singoli punti programmatici, le “azioni” specifiche, il loro stesso insieme perde sapore e mordente, finendo per apparire un elenco, più o meno scontato, di interventi non sempre necessariamente integrati e rispondenti ad una cornice concettuale univoca che ne esalti la reciproca coerenza.
Peraltro, il programma, talvolta, può rappresentare, invece, il presupposto, l’impalcatura preliminare o la piattaforma, un insieme di azioni necessarie a bonificare un terreno sconnesso su cui poi costruire un progetto. Ad esempio, nel nostro caso, le riforme cui dobbiamo attendere ed a cui sono connessi i finanziamenti europei corrispondono ad un disegno di modernizzazione che il Paese ha troppo a lungo disatteso, ma rappresentano altresì un compito che oggi ci viene prescritto come condizione previa perché siano rese disponibili le risorse necessarie a trasformare l’Italia. E’ un po’ come se l’Europa ci fornisse le linee del pentagramma e ci prescrivesse la chiave musicale, dopo di che spetta a noi comporre la sinfonia.
In altri termini, il governo in carica, al di là del prestigio e dell’autorevolezza del Presidente del Consiglio, ha in sé gli strumenti necessari per passare dal programma preliminare, nel senso che si diceva sopra, ad un “progetto”, cioè ad una politica sufficientemente organica e coerente da saper indicare al Paese un percorso credibile per il suo domani?
Va detto che il pacchetto di riforme da porre in campo – dal fisco alla giustizia, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza – è di per sé tale da esigere, fin d’ ora , che il percorso sia ispirato ad una visione, ad un’idea di quale Paese intendiamo costruire per le generazioni venture. Insomma, in questo particolare frangente, il programma cui immediatamente attendere ed il progetto di più lungo momento, diretto ad un disegno di sviluppo e trasformazione del Paese, finiscono se non per coincidere, per sovrapporsi largamente, fino a delineare un percorso che non può essere distinto in due fasi temporali subentranti l’una all’altra. Senonché, la scansione di questi due momenti ricompare ove si consideri il ruolo e l’ orientamento delle forze politiche. Per le quali un conto è affrontare, in tempo reale, temi di riforma già di per se fortemente impegnativi e divisivi – godendo, nel contempo, della partecipazione al tavolo della distribuzione delle risorse – altro è addirittura dare agli italiani una prospettiva del loro domani, cioè agire dentro una cornice che contemplerà quadri ben differenti, a seconda di chi sarà chiamato a porvi mano.
In definitiva, la dialettica politica è ovviamente insopprimibile, ma rischia di riproporsi, secondo una patologica “coazione a ripetere”, nelle forme del bipolarismo che fin qui l’ha prostrata ed avvilita. Ed è, anzitutto, qui che si impone la trasformazione di cui parla il nostro Manifesto.
In ogni caso, a chi ha scambiato il governo Draghi per una sorta di “pax augustea”, cosicché si irrita e si inquieta ogni qual volta una discussione tra le parti si fa accesa, va detto che perfino il comune sforzo per battere la pandemia ha bisogno della vivacità del confronto politico e della dialettica.
Forze politiche serie…se mai ce ne siano….devono saper conciliare l’impegno comune sul piano del programma del momento e la franca discussione del progetto di più lungo termine. Del resto, i partiti sono indispensabili alla vita civile del Paese se intende essere libera e democratica.
A Draghi per primo non conviene essere assunto nelle alte sfere del mito, per essere trasformato in una sorta di taumaturgo. Non abbiamo bisogno di un demiurgo, né che riprenda vigore l’italico vezzo di invocare e plaudire all’ “uomo della Provvidenza” che non ci piace. O meglio non ci piacerebbe neppure se tale ruolo dovesse ricadere, magari addirittura a suo dispetto, sulle spalle di un leader che stimiamo. Come ricordava Mino Martinazzoli non ci sono liberatori, ma solo uomini che si liberano.
Domenico Galbiati