La performance mediatica di alcuni studenti veneti, che si sono presentati all’esame di Stato-Maturità per annunciare che non si sarebbero sottoposti all’esame orale, avendo la certezza matematica – detto senza malizia (?) – che sarebbero comunque stati promossi, ha diviso in due l’opinione pubblica: da una parte chi legge nel loro “coraggioso” gran rifiuto un finora inascoltato messaggio di disagio, dall’altra chi accusa i giovani eroi di furbesco opportunismo. Ci limitiamo qui ad osservare che l’accusa rivolta ai docenti di avere interesse solo per i voti da infliggere agli alunni rovescia la realtà dei fatti. Gli insegnanti trasmettono dei saperi e devono verificare se la l’operazione ha avuto successo. È la loro professione. Ossessionati dai voti semmai sono, all’opposto, i ragazzi e le famiglie che hanno alle spalle. Basta a volte un 7-, invece che un preteso 7+, per scatenare trattative “sindacali” e proteste che vanno dalla lettera indignata al Dirigente scolastico fino al ricorso all’avvocato e ai TAR.
In ogni caso, bando alle chiacchiere! La presentazione alla Camera del Rapporto Invalsi – Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema di Istruzione – mercoledì 9 luglio non consente distrazioni mediatiche.
La foto drammatica del Rapporto INVALSI 2025
Le rilevazioni del 2025 descrivono gli esiti di un’indagine sugli apprendimenti, cui hanno preso parte circa 2.500.000 di alunni delle classi II e V Primaria, della III Secondaria di primo grado, e del secondo e dell’ultimo anno della Secondaria di secondo grado, sostenendo una prova di Italiano, una di Matematica e, per la scuola secondaria di secondo grado, anche due prove di Inglese: una di comprensione della lettura (Reading) e una di comprensione dell’ascolto (Listening).
Quali sono i dati macroscopici emergenti?
Primo: i traguardi a Livello 3 in Italiano/Matematica, previsti come adeguati dalle vigenti Indicazioni nazionali, sono raggiunti solo dal 50/60%, a seconda delle classi. E l’altro 50/40%? Sta al di sotto.
Secondo: il divario Nord-Sud varia lungo gli anni, ma resta ampio. Ma anche al Nord la scuola elementare non va benissimo, perché pesa la presenza crescente degli immigrati, il cui esito inferiore rispetto agli autoctoni oscilla tra i 13 e i 23 punti in percentuale.
Terzo: la dispersione scolastica esplicita – cioè l’abbandono scolastico – è calata al 9%, ma aumentano fino al 12,3% “la fragilità generale degli apprendimenti” e “la dispersione scolastica implicita”, per i quali gli studenti conseguono il diploma, ma non acquisiscono le competenze minime da esso previste. Ciò aggrava la polarizzazione degli esiti: “Se da un lato il sistema riesce a garantire a un’ampia quota di studenti e studentesse il raggiungimento di livelli soddisfacenti, dall’altro continua a persistere – e in alcuni casi ad ampliarsi – una fascia di popolazione scolastica che non raggiunge i traguardi minimi”. Insomma: cresce il tasso di analfabeti diplomati. Detto altrimenti: sta venendo avanti una generazione sempre più ignorante.
Un problema: chi trasmette “i saperi di civiltà”?
Sta accadendo che le generazioni adulte, che hanno ereditato da quelle precedenti “i saperi di civiltà”, ne trasmettono quantità sempre minori ai propri figli e ancor meno ai figli degli immigrati, che sarebbero destinati a far rifiorire il deserto demografico che sta davanti a noi.
Se il sistema scolastico è il meccanismo sociale-generativo che le comunità e le nazioni si sono date per riprodursi nel tempo, si deve prendere atto che il nostro si è inceppato da qualche decennio e che né la società civile né la politica sono stati in grado o hanno avuto la volontà di sostituirlo. La politica praticata è sempre stata quella che il Ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni (2006-2008) definì realisticamente “la politica del cacciavite”: aggiustare per non cambiare.
E così, i ragazzi si lamentano che gli insegnanti non sanno scoprire “il loro vero me”, questi denunciano la propria condizione di sottoproletariato intellettuale malpagato e sempre meno rispettato dai ragazzi e dai genitori, le famiglie proteggono i figli “contro” la scuola – la povertà/insipienza educativa di milioni di famiglie sta provocando l’impotenza/blocco educativo delle scuole -, qualche intellettuale alla Affinati mette in guardia contro la competizione e la verifica del merito nella scuola, come se per i ragazzi “il tempo- scuola” non coincidesse con “il tempo -vita”, nel corso del quale esercitare “il mestiere di vivere” e assumersi responsabilità qui e ora. Il cervello sociale del Paese è bloccato da resistenze corporative e da vecchi grumi ideologici.
La crisi istituzionale del sistema di istruzione e educazione
Pedagogisti e pensosi intellettuali, educatori e ministri hanno chiesto da anni al sistema la personalizzazione dei percorsi, l’inclusione di tutti i ragazzi, il diritto al successo per tutti (sic!), l’equità. Ma il tuttora vigente modello statal-amministrativo del sistema di istruzione/educazione, costruito in Italia a partire dalla Legge Casati del 1859, clonato da quello prussiano e francese, non è stato progettato per nessuno dei nobili scopi succitati. Si proponeva semplicemente di formare un’élite da un lato e, dall’altro, cittadini obbedienti, tecnici e operai, soldati capaci di comprendere gli ordini sul campo di battaglia. E stop!
L’incapacità di rispondere ai nuovi bisogni e, innanzitutto, al diritto di tutti ad accedere agli studi – come da Costituzione – dura da decenni, ed è stata solo aggravata dall’avvento di nuove tecnologie, di nuove e più sbrigative vie di accesso ai saperi e, ultimamente, dalla tendenza anglosassone, partita dalle Università, alla dissoluzione delle discipline in una brodaglia di nozioni irrelate. Così che anche l’orale dell’Esame di stato-maturità non riguarda più la verifica dei saperi effettivamente padroneggiati, bensì la capacità di istituire nessi tra campi del sapere più disparati, a partire da una cervellotica parola-chiave. Fino all’esito comico di dover trovare un nesso concettuale tra la Resistenza e la resistenza elettrica, come dicono le cronache.
La crisi degli assetti istituzionali ruota attorno alle seguenti domande: Valore legale del titolo di studio o certificazione rigorosa dei percorsi personalizzati? chi è “il padrone” delle scuole: la società civile o il Ministero? Le classi si formano sulla base dell’età o dei livelli? Quante discipline e quante ore per ciascuna? Tre cicli o due cicli? Uscire dalle scuole a 18 anni o ancora a 19? Come si formano, si assumono/licenziano, si valutano i docenti? Come si seleziona il management scolastico? Quale autorità valuta periodicamente le prestazioni finali delle scuole? Abolire o no l’attuale esame farlocco di Maturità?
Meritoriamente le Commissioni ministeriali e il Ministro si stanno impegnando per elaborare assi culturali aggiornati e nuove Indicazioni nazionali. Tuttavia, anche se produrranno vino buono, la botte istituzionale della scuola è marcia.
La crisi istituzionale è, come tale, massimamente politica. Ma la politica non sta neppure tentando di rispondere alle domande di cui sopra: l’opposizione è afasica, il governo arranca tra Indicazioni nazionali e voto di condotta. Avanti con il cacciavite!
Giovanni Cominelli