L’appuntamento con il messaggio che, in occasione della festa patronale di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo Delpini rivolge alla città di Milano, si rivela, di anno in anno, un momento alto ed una fonte di ispirazione importante non solo per la comunità ecclesiale, bensì anche, e forse soprattutto, per il “discorso pubblico” del nostro Paese.

Non so se qualcuno ci abbia già pensato, ma sarebbe bene che i discorsi di Sant’Ambrogio dell’Arcivescovo di Milano – come è stato fatto dall’ editore Bompiani, per le “Lettere Pastorali “ di Carlo Maria Martini – venissero raccolti e pubblicati in un unico volume che ne faciliti una lettura complessiva e coordinata. Vi si potrebbe cogliere più facilmente una continuità di pensiero ed una coerenza tematica che prendono forma da una sottile capacità di analisi del dato sociale, ma non si smarriscono nella cosiddetta “narrazione”, magari affascinante, ma pur sempre descrittiva. Lievitano, al contrario, verso una capacità di sintesi che approda ad un giudizio e questo, a sua volta, diventa una vera e propria lezione, cui soprattutto il mondo della politica dovrebbe prestare una singolare attenzione.

La lettura di quanto si muove nei diversi piani della nostra convivenza civile che Mons. Delpini propone, la si potrebbe definire “umanissima”, dato che, sempre ed anche quest’anno, prende le mosse e le misure da una vera “empatia” con la quotidianità delle persone, cioè da una comprensione non accademica, ma vissuta delle sofferenze, ma anche degli squarci di bellezza che ci vengono incontro nella vita di tutti i giorni. Ne deriva un linguaggio a suo modo inusuale, originale e prezioso, nella misura in cui muove da una preoccupazione pastorale, ma, quasi senza volerlo, senza pedanterie, senza contorsioni concettuali, senza nulla concedere al gusto intellettualistico di un ragionare accigliato e “pensoso”, approda ad una dimensione “politica”, nel senso piu’ immediato del termine.
Suggerisce, rispettando l’autonomia della politica e delle istituzioni democratiche in cui prende forma, quasi ci accompagnasse con discrezione su una soglia che tocca a noi attraversare, come si dovrebbe costruire una “città dell’uomo” che sia rispettosa della dignità di ognuno.

Parole, appunto, che abitano altrettanto bene la preghiera che, nel solco del dono della fede, i credenti dovrebbero volgere anche verso il divenire sociale e la riflessione laica che a tutti paritariamente, credenti o meno, appartiene nella sterminata “agorà” del discorso pubblico. Quest’ anno, in modo particolare, è di straordinaria efficacia la capacità di portare a sintesi con una sola parola – “la stanchezza” – la sofferenza “di chi non ce la fa piu’” e la prostrazione di una terra esausta che invoca un attimo di requie e di riposo.

In fondo, cos’è la stanchezza se non il gravame di una fatica che ogni giorno si accumula ed appesantisce la coscienza fino a privarla di ogni speranza e rubarle, quindi, il futuro? Ad ogni modo, il messaggio dell’ Arcivescovo di Milano, ben piu’ di ogni e qualunque commento, merita di essere letto attentamente nella sua integralità, con la pazienza e l’attenzione necessaria a coglierne le tante sollecitazioni che ci trasmette.

Domenico Galbiati

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