La prima parte di questo intervento è stato pubblicata ieri (CLICCA QUI)
L’ alienazione del lavoro oltre il paradigma marxista
I processi di “alienazione” del lavoro sono oggi radicalmente diversi da quelli del passato, da quelli combattuti dal socialismo, dal marxismo, dal sindacalismo in Italia ed in Europa .
Ed i “problemi del lavoro ignorati” dai referendum sul lavoro non sono ovviamente soltanto quelli delle gravi “storture del nostro mercato del lavoro” (Pietro Ichino, Corriere della Sera, 10 maggio 2025) che pure esistono. Il problema lavoro è ben più ampio e ci riconduce al concetto di alienazione oggi decisamente in disuso. Ci siamo forse abituati al mantra delle statistiche sul lavoro ed alle celebrazioni della crescita dell’occupazione. Forse che il lavoro non basta ? Che altro è necessario?
Ci siamo da tempo dimenticati che “…la libertà economica è solo un elemento della libertà umana. Quando quella si rende autonoma…allora perde la sua necessaria relazione con la persona umana e finisce con l’ alienarla ed opprimerla” (Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, Piemme, 1991, pp. 136, 137, punto 39).
L’economia ed il lavoro vanno dunque visti all’interno di un più ampio sistema socio culturale, se vogliamo decifrare il senso dei loro problemi di fondo. Il fatto è che il contesto è oggi radicalmente mutato.
Nel marxismo e nel socialismo che, nel contesto della rivoluzione industriale, si sono posti l’obiettivo di emancipare il lavoro ed i lavoratori, asserviti piuttosto che liberati dalle tecnologie industriali, si è costruita una “filosofia della speranza”- quella che ha dato forza a tante lotte sociali- una filosofia fondata sulle chances offerte da quegli stessi “progressi” della scienza e della tecnica che potevano essere usati in modalità liberatorie e non essere più causa di sofferenza e sfruttamento.
La vittoria contro l’ingiustizia sociale e la disuguaglianza diveniva possibile grazie al dominio del reale da parte di scienza e tecnica. Ciò consentiva di organizzare in maniera più razionale la vita sociale, consentiva così cioè il pieno sviluppo di quelle tecnologie o delle stesse “forze produttive” sviluppate ma poi sacrificate e limitate dal sistema economico capitalistico. La moltiplicazione quasi illimitata della ricchezza e l’organizzazione necessaria per renderla accessibile a tutti avrebbero risolto il problema ! Il sogno della giustizia si univa alla ragione degli uomini di scienza. Non solo la vita nelle fabbriche poteva essere umanizzata, ma persino la stessa società . Il “socialismo” era il nuovo radioso avvenire. Tecnologia e scienza che avevano generato i problemi li avrebbero anche risolti. Non c’era alcun bisogno di disciplinare limitare o guidare il “progresso”, che era di per sé inarrestabile. Bastava che i rapporti di forze nella società venissero mutati grazie alla “lotta tra le classi” che sarebbe stata foriera di progresso.
E’ questa prospettiva “progressista” che oggi pare giunta al suo termine. La moltiplicazione della ricchezza reale pare aver raggiunto i suoi limiti, così come le possibilità di sfruttare combustibili e materie prime, mentre nessun limite si delinea per la ricchezza finanziaria e virtuale, che impone i suoi vincoli – che appaiono duri ma logici e razionali-. e reclama autorevolmente, come lo Shylock di Shakespeare, la sua “libbra di carne umana” da una società che però non riesce più a “crescere”.
Nel mondo della tecno-finanza ultra-liberista e del post-umano annunciato da nuove impressionanti filosofie e da un ceto politico sui generis che sembra fuoruscire dal mondo del diritto e della razionalità, si profila così il rischio di un mondo guidato da forze tecnologiche il cui controllo non pare più essere quello umano, o almeno quello dell’uomo comune.
Si diffonde una tecnologia sempre più autonoma dall’uomo che cambia i rapporti di lavoro e la struttura sociale, crea modi di comunicazione diffusi privi di regole, disintegra la “difettosa” politica sostituendola con una tecnologia infallibile e produce disorientamento e paura.
L’errore antropologico del socialismo marxista
Di fronte a questo mutamento epocale conserva ancora validità il paradigma marxista della alienazione-sfruttamento?
La perdita del senso autentico dell’esistenza, il predominio di una realtà virtuale in cui si perdono le coordinate razionali, persino quelle del bene e del male, sono i volti inediti di una nuova alienazione dell’uomo e del lavoro che ha radici profonde. Abbiamo a che fare con una alienazione che non si presenta più solo coi tratti della povertà materiale, derivante dalla appropriazione/ espropriazione di una parte consistente del proprio lavoro, nei termini classici descritti da Marx, col lavoratore trattato come una merce da retribuire secondo il suo valore di mercato. Né l’alienazione si presenta puramente come risultato della estrazione di valore da parte di una classe sociale ben individuabile e riconoscibile, ma piuttosto come il risultato di un complesso di vincoli e di relazioni tecnologiche finanziarie ed economiche che non potrebbero essere diverse e che non sono riconducibili ad una controparte sociale ben individuabile ( il padrone, l’imprenditore, il ceto borghese imprenditoriale o altro). Così come gli oggetti sottoposti a quei vincoli non costituiscono più una “classe”, un corpo sociale preciso ma sono raggruppamenti sociali anonimi e dispersi entro la “società liquida”.
Da un lato oggi in Italia abbiamo il fenomeno degli working poor dei lavoratori che non guadagnano il minimo per vivere decentemente, in forme simili a quelle descritte nei documenti inglesi e nei romanzi del primo Ottocento. Un fenomeno, peraltro, anche fuori dai meccanismi di mercato con un valore della retribuzione anche al di sotto dei parametri di mercato, persino al di sotto della nuda capacità di soddisfare i propri bisogni, un fenomeno ormai quasi accettato come una patologia permanente, senza che vi sia chi levi il grido verso il cielo per la “mercede defraudata all’operaio”.
Dall’altro lato si registra una perdita del senso autentico dell’esistenza e del lavoro anche in settori in cui la retribuzione è decente o più che decente. Lavoro povero da un lato, lavoro senza senso dall’altro. (Segue)
Umberto Baldocchi