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L’ Intelligenza Artificiale cartina di tornasole delle “cose nuove” del lavoro

Al tecno liberismo imperante si stanno aggiungendo  poi rischi nuovi o “novità” inquietanti per il lavoro e per l’uomo. L’Intelligenza Artificiale pone, ad esempio, problemi enormi, non certo soltanto quello della diminuzione dei posti di lavoro, forse il meno rilevante.  Le “macchine che pensano e che decidono”, vero e proprio “pilota automatico”delle nostre esistenze, propongono  una inedita “umanizzazione della realtà”, o piuttosto una “de-umanizzazione del pensiero umano” che acquisisce per “osmosi” il pensiero della macchina?

Il tradizionale dualismo cartesiano uomo-macchina, che ha fondato le diverse fasi  della modernizzazione e del progresso che abbiamo conosciuto negli ultimi cinque secoli,  è stato messo in discussione dall’avvento della scienza informatica, nata dalla crisi della matematica classica alla fine dell’ Ottocento.  L’automazione di nuovo tipo, sviluppatasi con la scienza informatica non si applica infatti più solo al compimento di attività materiali,  ma addirittura al pensiero stesso, a ciò che è più proprio  dell’umanità.

E se l’ I A è attiva, almeno in Italia, in presenze ancora marginali nel mondo del lavoro, essa è tuttavia l’elemento che meglio evidenzia e concentra le problematiche sorte dal tecno liberismo, dalla globalizzazione, dalla nuova distribuzione mondiale del lavoro e dalla onni-pervasività  delle connessioni digitali, che producono “singolarismo” ed isolamento delle persone. Una vera e propria “cartina al tornasole” che riassume  e evidenzia  il senso delle novità.

Detto in estrema sintesi potremmo individuare il cuore di questa nuova alienazione nella “inversione tra i mezzi ed i fini” (Centesimus Annus p. 138) che Papa Giovanni Paolo II aveva ben individuato e denunciato profeticamente già agli albori di questi fenomeni . Il problema del lavoratore e del lavoro non è più – per rifarci alla lettura marxista che più di altre ha promosso lotte sociali e sindacali-  nella sola appropriazione di valore da parte del capitalista, o di un ceto sociale ben individuabile. Questa nuova alienazione nasce all’esterno del mondo economico, da una cultura antropologica diffusa e da una politica, fondata su una distorsione del concetto di persona e sulla rimozione della “soggettività” della società e dello stesso individuo (Centesimus Annus, p. 106).

Una rimozione che ha operato tanto nella società capitalistica imprenditoriale, ma anche nel socialismo di Stato, che ha per certi versi anticipato l’alienazione attuale. In questo caso  l’inversione di mezzo e fine non nasceva dalla volontà di fare profitto, ma dalle scelte “progressiste” ispirate da una tecnologia che agisce in nome di scelte razionali che mirano alla ricostruzione dall’alto della società, come avveniva nell’ Europa comunista con le collettivizzazioni dell’agricoltura o i sistemi imperativi-distributivi che “organizzavano” l’economia su presunte basi scientifiche, sulla base delle “leggi scientifiche” note ai detentori del “socialismo scientifico”. E naturalmente finivano per causare disastri economici in tutti i campi.  Nessuno ricorda più le “marce della fame” di Varsavia 1981.

E’ l’inversione tra mezzi e fini che ormai dilaga a partire dalla tecno-finanza, laddove il mezzo principale, il denaro ( ed il suo valore relativo) finisce per essere il fine principale delle scelte politiche. Laddove il denaro “governa” invece di “servire”. Al punto che addirittura un riarmo generalizzato ( ed eventualmente una guerra anche globale) potrebbe essere il mezzo più adeguato per tutelare i valori finanziari.

Così svalutare il lavoro, come in Italia si fa da decenni, – essendo impossibile svalutare la moneta come si faceva un tempo- per assicurare la competitività e la attrattività di un’economia già di per sé disastrata dallo spreco infinito delle risorse umane , ecco un esempio di questa inversione tra mezzi e fini, che caratterizza la società dell’astrazione in cui viviamo, un termine che meglio a mio avviso la qualifica rispetto a capitalistica o liberista.

Il lavoro come  dialogo che serve la vita

Ma  con quali “occhiali” allora guardare a queste novità sconcertanti? Se il ricorso alle tecnologie fornite dal “progresso” non basta più ad emancipare il lavoro e la persona che cosa  altro dovremmo cercare? Qui è il punto. Abbiamo pensato il lavoro come fonte di sofferenza da contrastare o come espressione di creatività da valorizzare. Oggi dobbiamo andare oltre.

Il lavoro oggi, nell’epoca “digitale” in cui la proprietà della conoscenza, della tecnica, del sapere e dei dati informativi  è molto più rilevante e decisiva per la ricchezza delle nazioni e per la vita delle persone di quella dei mezzi di produzione, è anche e soprattutto  altro.  Come ha potuto vedere per primo chi ha vissuto la realtà “rovesciata” dei paesi comunisti a socialismo di stato, il lavoro è’ una “forma particolare  di dialogo dell’uomo con l’uomo che serve alla conservazione  e allo sviluppo  della vita umana. Più brevemente  il lavoro è un dialogo al servizio della vita” (Jozef Tischner, Etica della solidarietà, Bologna, CSEO, 1981, p. 29) Come la parola è una sintesi tra un materiale sensibile  (il suono) e un significato,  così il prodotto del lavoro  è la sintesi tra un qualsiasi materiale  (argilla, metallo, ferro) e un significato  (vasi, attrezzi, aratri ); grazie al lavoro la materia grezza acquista un significato . I significati delle cose entrano in rapporto tra loro e costruiscono il mondo in cui ci muoviamo.

Questo dialogo è ciò che serve la vita e qui è la sua nobiltà. Laddove esso non serve alla vita, non persegue il suo fine naturale, ma è guidato da un mezzo che è sempre tecnologia, il lavoro si ammala, perde senso, invece di creare divide e dividendo minaccia  di  uccidere o talvolta uccide. Il lavoro è ammalato non solo quando maschera uno sfruttamento, quando nega la realtà del contributo del lavoratore alla sua opera, ma anche quando trae in inganno il prestatore d’opera o quando trae in inganno il destinatario della produzione.

E’ ciò che avviene quando l’imprenditore disinserisce un meccanismo di sicurezza di un telaio mettendo a rischio la vita di un operaio o quando un allevatore intensivo  di carne utilizza antibiotici e mangimi impropri per accelerare il ciclo produttivo e produrre carne più rapidamente o anche quando un dirigente sanitario di una azienda ospedaliera valuta il funzionamento delle strutture curative secondo parametri puramente economici  o quando il medico di un SSN considera la propria attività come una serie di prestazioni professionali e non come attività di cura di una persona, o come diciamo oggi non persegue una  patient centered care. Come dovrebbe fare sempre l’arte medica, se vuol seguire le regole di Ippocrate, non i protocolli ideati dalla “medicina difensiva” del XXI secolo. O ancora quando un laureato, magari in giurisprudenza, è assunto per svolgere un lavoro educativo, in via precaria, di supporto/ sostegno a persone portatori  di handicap senza aver conseguito ‘apposito titolo.

In tutti questi casi il dialogo del lavoro è malato, genera sofferenze e soprattutto perdita di senso e di fiducia. Per non dire di speranza. Che senso ha una comunità fondata su questi rapporti? Può esistere su queste basi una comunità politica in cui ha un significato   partecipare alla vita politica? E come può un sistema che spreca e umilia in continuazione risorse umane, ed in cui si annunciano continuamente tagli di tassazione( come  una sorta di “droga per la crescita”, un’ altra forma di menzogna,  per alterare artificiosamente ed a scapito del futuro la realtà sociale) invece che   riequilibri della tassazione,  pensare di accrescere la produttività del lavoro e non solo il numero degli occupati?

La forza della fiducia e il motore del progresso sociale

E’ da questa  crisi del lavoro come dialogo sociale che  si alimenta la realtà “babelica” dell’economia italiana in cui forse il PIL potrà anche crescere ( magari “grazie” agli investimenti militari ed alle guerre) ma la produttività non potrà che essere bassissima, la possibilità d innovazione ridottissima,  e l’ adattamento alle disfunzioni  massimo.  Non c’è modifica di mercato, nonostante quanto pensa il prof. Ichino, che possa cambiare l’economia finché il nostro sistema socio-.culturale resta sprovvisto della forza motrice essenziale, che in una democrazia può essere solo la fiducia fondata. Fiducia negli altri, nelle proprie capacità prima di tutto, nella possibilità di realizzare queste capacità anche nel nostro Paese, e, fiducia, se possibile, magari non necessario, anche nei governanti.

Ma la fiducia richiede che il dialogo del lavoro sia vero e che sia liberato di tutte le menzogne,  le furberie e gli artifici e i raggiri che lo devastano, non solo dagli abusi nei licenziamenti o nei contratti a termine. Richiede che si mettano al primo posto le finalità vere del paese reale e che ad esse si subordinino e si rendano disponibili tutti  i mezzi economici, utilizzando, secondo i principi costituzionali, tutta la ricchezza esistente.  Richiede che si vadano a cercare e valorizzare le risorse umane e culturali, quelle più giovani o meno anziane. Qui è il primo investimento da fare per “difendere” davvero l’ Italia, prima ancora di ogni spesa per una “difesa militare”, che ha senso solo se prima di tutto il resto  “si difende” la vita quotidiana e la dignità dei cittadini e lavoratori.  Ha senso cioè se il lavoro si rivela come un dialogo per servire la vita, non per servire la morte, che potrebbe invece essere un’opzione triste, ma accettabile per chi si limita a valutare i progressi economici sulla unica base dei parametri astratti della finanza, il PIL , lo spread, il contenimento della spesa pubblica, la tenuta dei conti pubblici.

Umberto Baldocchi

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