Il  fallimento dei referendum sul lavoro: era già tutto previsto?

Il fallimento dei referendum sul lavoro non cancella certo il fatto che tutelare il lavoro e tutelare la democrazia sia oggi essenziale. Tanto più nel Paese che porta il lavoro iscritto nel primo articolo della Costituzione e che da sempre collega tra loro lavoro e cittadinanza.  IL referendum abrogativo è solo uno dei vari istituti previsti dalla nostra democrazia per realizzare la sovranità popolare. Da usare sempre con coraggio ma anche con discernimento.

Evitando ovviamente gli usi impropri, pericolosi anche perché spingono a credere che sia l’istituto referendario a non funzionare a ritenere che “Il vero malato ( sia) il referendum” (Antonio Polito Corriere della Sera 10 giugno 2025, p. 38). Ad esempio, usare un referendum per contarsi, per fare una prova tecnica di maggioranza, persino per contestare il consenso reale ad un governo , sono altrettanti usi impropri. Certo spesso praticati in I’ Italia, ma usi decisamente impropri. Tale non era invece il referendum sull’acqua pubblica, l’ultimo dei referendum che raggiunse il quorum.

Certo le questioni del lavoro sono oggi centrali. Ma siamo proprio sicuri che le questioni dei quattro quesiti referendari – che ponevano problemi rilevanti e seri per una parte di lavoratori dipendenti-  fossero proprio così centrali e così capaci di coinvolgere  tutto il corpo elettorale?

Il fatto è che i problemi del lavoro nell’epoca della Intelligenza Artificiale  e del mercato globale ultraliberista sono molto diversi da quelli delle lotte sindacali e popolari del XX secolo. Abbiamo riflettuto su questo?

Il problema lavoro è oggi in Italia un problema enorme. Il paese soffre di questo problema e dei suoi effetti. Ma un malato di broncopolmonite bisognoso di cure e consapevole del suo male può accettare tranquillo la somministrazione di un’aspirina? Che c’è di strano se le regioni più deboli, penso alla Calabria, abbiano “rifiutato l’ aspirina”, cioè  disertato i referendum sul lavoro in misura maggiore di altre più fortunate, come la Toscana?

Bisogna forse tornare alle origini per confrontarci con le “cose nuove” che abbiamo oggi davanti. Cominciamo di qui, dalle  “res novae” di cui tanti anni fa, nel 1891, si occupò  Papa Leone XIII, giustamente ricordato dal nuovo Papa Leone che ne ha ripreso il nome ed ha affermato di volerne continuare l’ azione.

 Nemini licet ! Prima cosa: difendere la dignità del lavoro 

Se dovessi cercare nelle parole di esponenti dell’area socialista, democratica o radicale una espressione che concentri la volontà di denuncia del grande pericolo che minaccia lavoro e lavoratori, confesso che avrei difficoltà a trovarla.  “Ribellarsi è giusto”, “Insorgiamo”, “cambiamo il mondo”  “cambiamo il lavoro” o frasi del genere mi sembrano manifestazioni un po’ ingenue, di tipo velleitario, legate all’alea dei puri rapporti di forza, che ci si aspetta che mutino, non si sa però come.

Trovo invece una espressione che mi sembra esprimere tutta la radicalità e la profondità di un cambiamento che si può realizzare solo a partire da un vincolo morale che viene dall’alto, ma che a tutti si impone  attraverso l’imperativo di un dovere riconosciuto di per sé evidente dalla ragione.  L’ espressione è il “NEMINI LICET”

A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande rispetto”(Rerum Novarum, 32)

Parole forti, impegnative e solenni,  certo di ardua concretizzazione, raramente però affermate con simile forza da sindacalisti e da politici. Limitarsi a dire che il “lavoro sottopagato è sfruttamento” è riconoscere uno stato di fatto perverso, certo da combattere, ma non equivale a condannare razionalmente e moralmente quello stato di fatto, non equivale a chiamare alla “lotta per la giustizia”,  ad una lotta solo apparentemente meno provvista di “armi morali”, ma oggi forse più affidabile di ogni tradizionale  “lotta di classe”.

Per la verità il contesto in cui Papa Leone XIII  formula l’espressione, in riferimento ai lavoratori,  parrebbe a prima vista un contesto puramente ecclesiale e religioso.  In quel paragrafo ( n. 32) infatti si parla del “diritto al riposo settimanale”, un “diritto” agli occhi di molti oggi marginale, secondario, legato ad esigenze o scelte politicamente irrilevanti, comunque di rilevanza privata. Quale differenza dovrebbe esserci tra il riposarsi la domenica o farlo un giorno qualsiasi? O perché privarci della “libertà” di spendere il “giorno del riposo” nel fare shopping in uno dei tanti ipermercati sempre aperti in quelle che erano un tempo le “feste comandate” da cui si salvano ormai solo Natale e Pasqua?

Il “superamento” del riposo settimanale

In realtà abbiamo completamente perso di vista il profondo significato culturale ed antropologico del riposo sabbatico o domenicale, come diritto della comunità e del singolo lavoratore. Un significato attentamente  custodito dall’ebraismo,  ed invece banalizzato nel contesto della secolarizzazione europea e della “società liquida”, in cui solo gli individui esistono..

Abbiamo smarrito una dimensione costitutiva della vita pubblica e della comunità.  Pare ormai arcaico o buffo  ogni riposo collettivo ricorrente, sabbatico o domenicale che sia. Nell’eterno ed omogeneo presente in cui viviamo il riposo, la “festa” è essenzialmente solo una interruzione del tempo, uno spazio vuoto da riempire con ciò che ognuno preferisce, e quindi una interruzione privata, a seconda delle esigenze personali. Si interrompe il tempo di produzione o di lavoro, così come si interrompe in una cartiera il lavoro della macchina per consentire un reset o un corretto funzionamento del macchinario. L’interruzione del tempo, il fine settimana o week end è appunto solo una interruzione o uno spazio temporale residuale, , un tempo vuoto da riempire col contenuto che ogni singolo preferisce.

Il sabato ebraico, come la domenica cristiana, è invece uno spazio pieno ed anche “sacro”, nel senso di intoccabile, non  semplicemente per dar spazio a riti religiosi, ma per dar spazio a quella piena realizzazione dell’uomo  che è il senso profondo del “comandamento” biblico, anche, e forse soprattutto,  nella sua accezione cristiana. Il sabato fatto per l’uomo, non l’uomo fatto per il sabato ! Se l’uomo è una entità orientata verso un oltre che è il perfezionamento personale , la realizzazione del sé in una prospettiva che finisce per trascendere i suoi legami con le cose, con la materialità, addirittura con lo spazio limitato della sua vita, allora il riposo festivo è il contrassegno di una sorta di dimensione altra, che lo rende assolutamente indipendente dalla realtà sociale in cui si colloca.   E’ il segno di una “alterità” qualitativa irriducibile rispetto al mondo reale, il segno della irripetibilità, unicità e della profondità abissale della persona, cioè della sua dignità. Il “comandamento”  biblico è chiarissimo: ”Tieni nella mente il giorno del sabato” ( zàkor et yom  ha sabbat), laddove il verbo “tenere nella mente” secondo l’analisi linguistica del rabbino Marc  Alain Ouaknin ( nel testo Le Dieci Parole, Paoline, 2020) significa “pensare continuamente ” “ vivere continuamente”nel pensiero del sabato ( o della domenica) cioè nella prospettiva del tempo fatto per l’uomo, del tempo inalienabile, da dedicare alla prospettiva dell’autorealizzazione, in direzione della trascendenza. Se si cede su questo, se il tempo riservato dell’uomo è reso disponibile per opzioni diverse, come quelle  della produzione, del consumo o del capriccio più casuale, la persona non è più padrona del proprio  tempo, perde ogni “alterità” radicale rispetto alle cose, finisce per esser serva e schiava di tutto. O finisce per essere nulla lasciando che sia il tempo, l’opzione del momento, ad essere tutto.

Non ce ne siamo accorti, ma grazie anche a mutamenti “innocui”, alla pratica del lavoro in tempo festivo, si è lentamente affievolito il senso della dignità della persona ed a maggior ragione quella del lavoratore.  Dignità, parola ancora in uso, , ma forse pronunciata con leggerezza svuotata di significato e di capacità ammonitrice.   (Segue)

Umberto Baldocchi

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