E’ un diluvio, come mai prima nella storia del nostro Paese: neologismi, vocaboli deformati, vocaboli “cabriolet”, svuotati del loro significato, vocaboli ed espressioni che immediatamente suscitano reazioni pavloviane, con la loro carica di positività o negatività assegnata da occulti padroni del discorso.

La nostra è davvero l’epoca d’oro della neolingua orwelliana; ci aveva già avvertito, George Orwell, col suo “1984”: il linguaggio non è soltanto uno strumento di comunicazione, ma è pure un potente strumento di potere, perché permette il controllo delle menti: “chi controlla il linguaggio- diceva- controlla il pensiero”.

La guerra della lingua, così importante per il controllo delle masse, dunque, se la è aggiudicato un’area opaca che non mostra il suo vero volto ed è di difficile individuazione.

Apparentemente la neolingua, la lingua che quotidianamente si forma, anzi, si deforma, è un fenomeno naturale, una lenta manovra di adattamento del linguaggio alle nuove condizioni di vita, alla “modernità” ad un’epoca sempre più felice, con la sua veste fiammante dell’amore e dell’amicizia globale.

Soprattutto in questa epoca, cosiddetta dalla neolingua “epoca di pandemia”. Eppure analizzando le novità linguistiche, qualche sospetto di artificiosità si insinua….. “Mai più sarà tutto come prima”: è il mantra mediatico degli ultimi 15 mesi; e non c’è che ripetere per 15 mesi qualcosa in modo ossessivo per farlo accadere.

Ecco, dunque, che il nuovo che “non sarà più come prima” ci condurrà certamente nel “Locus Amoenus” tanto agognato in epoca classica, garantendo la felicità assoluta, la fraternità universale, la giustizia ed il benessere globale, il Paradiso in terra, l’immortalità che già la scienza ci prospetta …. (sic!).

Inseguendo tali miraggi nel deserto della confusione psichica e sociale odierna, la mano invisibile dei padroni del discorso piano piano sostituisce l’archeolingua con la neolingua: via quella lingua antica, via regole grammaticali e sintattiche, quella lingua ricca di vocaboli e di strutture che altro non servivano se non a permetterci di esprimere in piena libertà anche le più sottili sfumature del nostro pensiero, e del nostro pensiero.
Non ce ne sarà più bisogno: ci sarà chi penserà al tuo posto, magari i media, magari i social; e rammenta: chi si allontanerà dal pensiero unico scadrà nello psicoreato.

Ecco la prassi neolinguistica: semplificazione estrema delle strutture; concesso l’impiego di un numero ridottissimo di vocaboli, già caricati di un significato unico ed inequivocabile, voluto dai padroni del discorso; in sintesi, ecco la neolingua, cioè la lingua ideologizzata, e tecnocratica; potremo esprimerci in ambito scientifico, informatico, e via discorrendo, mentre per il pensiero culturale e politico, per la critica, per il pensiero individuale non ci sarà spazio al di fuori di quello previsto, imposto e giulivamente condiviso.
Al pensiero individuale atrofizzato, non resterà che essere eco del pensiero unico ed assoluto.

Fra la “resilienza”, che pochi sanno cosa sia, e la “consapevolezza” (quale? in un’epoca in cui si cerca di allontanare la massa dalla conoscenza, come può esistere consapevolezza?) , c’è un vero e proprio universo artificiale di costrizioni lessicali ed espressive.

I giovani che, come sempre, tendono a limitare per pigrizia il proprio vocabolario, sono insieme il primo obiettivo ed il primo veicolo di propagazione della neolingua. La parte del leone come spacciatori di prodotti linguistici tossici la fanno, ovviamente, i media, sia quelli della carta stampata che degli audiovisivi, insieme ai cosiddetti social.

E così, inserendo un vocabolo oggi, uno domani, abolendone parimenti uno oggi, uno domani, si cambia la testa alle persone.

Neolingua, inoltre, che porta all’esclusione del renitente dal dibattito con poche e pesanti pennellate: un bel “ista”o un fobo e sei fregato: populista, fascista, comunista, razzista, nazionalista, qualunquista, sovranista, maschilista , individualista, omofobo, xenofobo ; anche se tu sei ben lungi dall’essere qualcuna di queste cose, basta già la parola per condannare preventivamente il tuo pensiero). Il linguaggio, dunque, che diviene ideologico ed autoritario.

Se ti infastidiscono, è un conto; ma se ti bullizzano è ben più grave. Chi lo stabilisce? Ovvio, chi racconta la vicenda, prima ancora che un magistrato se ne occupi; a magari dipende tutto da chi è la vittima… Se sei stato bullizzato, oppure mobbizzato , già il crimine è assodato dalla penna e dalla parola.
Chi è stato infastidito, invece, non si lamenti neppure.

Il femminicidio è un delitto gravissimo (ed è vero), ma l’omicidio di un vecchio, di un disabile, o anche solo di chi non si sa difendere , come di qualsiasi essere umano, cos’è? Il nostro Cristianesimo ci dice di non uccidere senza distinzione, ma non chi non uccidere. Così facendo , ovviamente, si discrimina. Viviamo una società che alza la voce contro le discriminazioni e che, contemporaneamente, ne crea come non mai.

Ed ecco che, prepotentemente, si fa strada l’ideologia, annidata nelle pieghe della lingua: “tradizionalista” odora già di superato, di testardaggine, di chiusura; ” il progressista” vola già leggero nel futuro. Un giochetto?

Associamo questi aggettivi ad altri vocaboli e vediamo l’effetto che fa. L’aggettivo tradizionale associato a famiglia dà “famiglia tradizionale”, nell’immaginario collettivo già si sente odore di muffa; mentre il progresso associato alla stessa famiglia, sa di famiglia aperta, allargata: senti che respiro, che brezza di mare…… Un giochetto che si potrebbe fare all’infinito: le reazioni sarebbero sempre pavloviane.

E che dire della globalizzazione linguistica, che poi altro non è che l’americanizzazione, tanto funzionale alla tecnicizzazione ed alla neutralizzazione delle menti?: più usiamo vocaboli della cultura dominante, per sua stessa natura povera ed essenziale, ma soprattutto tecnologica, più abdichiamo ad ogni indipendenza e profondità di pensiero: ecco un tweet, un like, un selfie, un hashtag, un emoji, magari ti taggano, o ti bannano, ecco un account.., linguaggio che già di per se stesso allontana intere generazioni , dedite all’archeolingua, dalla comprensione e dalla comunicazione. Così come in economia, il boss ed il break ,il brand ed il business, lo staff, ed il jobs act, il cash e via discorrendo all’infinito. Ogni occasione è da cogliere per trasformare il linguaggio, soprattutto dei popoli europei, e con esso la loro testa.

E veniamo, dunque, all’opportunità pandemia.

Dalla pandemia è partita una vera e propria nuova “civilizzazione” che fa del linguaggio uno strumento di rottura frontale, un po’ come gli arieti per l’esercito romano. Vocaboli già esistenti che riaffiorano più potenti, altri appena creati per essere dirompenti e creare le ragioni lessicali della disgregazione sociale e della frattura mentale: niente più maestri , c’è il dad, niente più amici, si fa distanziamento sociale, le goccioline sono più serie e sanno più di scienza se si chiamano droplet, chi si oppone è certamente un hater e va bannato, mentre siamo in ascolto del verbo dell’influencer; nell’epoca del lockdown, ci sfiniamo con la ludopatia in rete, e proviamo il poliamore; dall’oscurità dela sera sbucano le ombre dei rider a bucare la carcerazione preventiva, chiamata appunto lockdown ed a portarci la cena; se vogliamo entrare in un ufficio c’è il termoscanner, l’infezione è virale, così come un video od una battuta.

Chi avrebbe mai detto che un popolo intero si sarebbe messo sulle tracce di un non ben definibile “paziente zero”, che avrebbe inseguito “l’immunità di gregge”, che avrebbe compilato avidamente “l’autocertificazione” per ottenere un’ora d’aria, che si sarebbe incollato alla tv in attesa dell’ultimo DPCM (sigla di cui nessuno o quasi un anno e mezzo fa sapeva il significato ); che saremmo stati lì a cercar di capire e distinguere fra “congiunti” ed “affetti stabili”, a calcolare l’indice “rt”, a vivere di quarantene sino a coniare il verbo “quarantenare”, a farci “tamponare” con lieta pazienza per scoprire se eravamo “positivi o negativi”, se i nostri sintomi comprendevano “anosmia, disgeusia, dispnea”, se di “morbilità” si trattava, se la pandemia era, invece, “un’infodemia”, atterriti dal “nemico invisibile”, applaudivamo chi, come i sanitari era “al fronte” , e noi, uscivamo guardinghi, come in guerra, perché il nemico è chiunque ed ovunque e ti ascolta e ti colpisce ; così ci siamo rassegnati alla “riunione a distanza”, al “distanziamento sociale”, all'”isolamento fiduciario”, all'”autoisolamento”, contrari all'”assembramento”, ci siamo concessi solo qualche “aperizoom”, siamo diventati devoti del “confinamento”, abbiamo esaltato l'”italienza” ed infine dalla pandemia usciamo per affermare la “sostenibilità” del nostro futuro, come quella del pianeta, e fra workshop, audience, mental coach, influencer, community, happy end (oppure flop), meeting, mission, partner, ci concediamo un party (via social, si intende) per un po’ di relax, seguendo il trend, lavorando in team, e pure il weekend non abbandoniamo il web.

Al di là degli aspetti medico scientifici di tutta la vicenda “pandemica” nei quali non mi permetto di entrare per incompetenza, non si può non notare che la pandemia ha innescato una vera e propria neolingua relativa, che porta con sé è una nuova forma mentis: pensate soprattutto, ma non solo, agli adolescenti come escono da questo nuovo habitat linguistico, e quanto ne possa risentire la loro stessa formazione.

Non sarà mai più tutto come prima, recitava ossessivamente l’esercito mediatico durante i 16 mesi di mono informazione: più lo si dice, più accade; e più si usa la neolingua, più comprendiamo che già stiamo dentro al tanto propagandato futuro. Il linguaggio ne è strumento e manifesto.

Abbiamo capito che non saremo più come prima; il problema è che vorremmo sapere come saremo dopo.

Lorenzo Dini

 

About Author