La pace è difficile da raggiungere se non è sostenuta almeno da quel che resta di un sentimento morale che sappia resistere perfino al furore dello scontro armato. La condizione di conflittualità permanente, contrassegnata da una miriade di guerre più o meno locali, si è trasformata, grazie a Putin e Netanyahu, in un marasma bellico che traduce sul terreno del conflitto una profonda crisi morale dell’umanità come tale.
Non si tratta più nemmeno di guerre, ma di “carneficine” nelle quali la popolazione civile rappresenta l’obiettivo che viene prioritariamente e volutamente colpito, una sorta di scudo umano che serva ai contendenti da ricatto morale nei confronti dell’ avversario, quasi che lo stesso scontro armato sia se non secondario, comunque finalizzato ad una guerra che si vince o si perde sulla tenuta del “fronte interno” ancor più che sul campo di battaglia. E’ la logica della “guerra d’attrito” dove – diversamente da quanto succedeva nelle stesse guerre di trincea – non conta tanto o non conta solo l’avanzamento del fronte, ma il mantenimento costante ed ossessivo di uno stato di tensione e di allarme, orientato a confondere e smarrire la coscienza e l’identità di un popolo. Una sorta di genocidio delle anime, prima che dei corpi. In questo senso, gli ucraini ed i palestinesi sono tutti soldati schierati al fronte, sulla linea del fuoco, in una lotta di resistenza e di liberazione.
Per quanto riguarda Israele, al crimine della guerra si aggiunge la colpa di disperdere quel credito morale, che l’umanità intera le deve pur riconoscere, in nome della sofferenza bestiale ed indicibile che le hanno provocato popoli civili dello nostra Europa. L’umanità registra, purtroppo, perfino su questo piano un arretramento pauroso della propria coscienza morale e civile.
Stiamo entrando in un tempo livido e bieco che ci riporta alle guerre tribali tra clan primitivi che combattevano ferocemente per la sopravvivenza. Quando la morte degli uni era la condizione perché vivessero gli altri.
E’ difficile dirlo, ma perfino la guerra, come classicamente la si intende, ha storicamente rappresentato un’evoluzione, rispetto a quel tempo delle prime origini del genere umano. Appare blasfemo alla nostra sensibilità ricordarlo, in un momento talmente crudo, ma la guerra ha finito per imporsi come istituto diretto a circoscrivere il conflitto, perché non fosse fatalmente distruttivo dall’una e dall’altra parte. Eserciti, cioè corpi funzionali ad hoc, a loro modo separati e distinti dalla popolazione civile, per salvaguardarne comunque la sopravvivenza, si combattono in un teatro di guerra, anzitutto – a questo serve la divisa militare – rendendosi reciprocamente riconoscibili, per delimitare l’area dello scontro, pur cruento, e risolverlo consensualmente solo tra i combattenti delle due parti. Uno scontro insensato eppure regolato – almeno così dovrebbe essere – da norme e statuti che dovrebbero mitigarne la ferocia.
Oggi vediamo in campo eserciti – chi non ricorda Bucha oppure Jabalia, pochi giorni fa? – che si comportano da bande armate e, come tali, concepiscono il loro ruolo. Anche su questo fronte, in un certo qual modo, anziché vivere, siamo vissuti e posseduti dalla tecnica. E’ anche la costante implementazione tecnologica delle armi a spingere l’aggressività umana oltre il limite della violenza e della ferocia. Siamo posseduti dalla tecnica? Non dobbiamo temere che i robot si trasformino in macchine pensanti, ma piuttosto che noi, pensanti, ci lasciamo plasmare dalla tecnica fino a trasformarci in robot.
In quanto alla distruttività umana è un insondabile mistero e, purtroppo, non ci deve sorprendere quanto sia illimitata. Non è forse quel che succede, con un’impressionante frequenza, in micro-cosmi familiari, che – pur originariamente nati nel segno di una qualche forma di affettività – risolvono le loro tensioni solo ricorrendo al delitto del femminicidio? Perché non dovrebbe succedere ad un soggetto collettivo quel che capita al soggetto individuale? E come si spiega, altrimenti, che il furore nazista abbia travolto un popolo che ha dato all’umanità Goethe e Kant, Hegel e Schelling, Bach, Mozart e Beethoven?
Se la intendiamo nel senso proprio e radicale del termine – e non come l’ accomodamento temporaneo di un conflitto armato – è davvero lunga la via della pace. Cui, peraltro, non possiamo rinunciare.
Domenico Galbiati