PremessaNel suo discorso alla nazione, tenuto alcuni giorni fa di fronte al Parlamento, il presidente russo Putin, senza essere molto convincente, ha affrontato soprattutto questioni di carattere interno, cosa più che comprensibile vista la natura dell’intervento. Ha fatto credere che le condizioni del paese siano in via di miglioramento e che i redditi stiano aumentando. Ha inoltre annunciato nuovi programmi di sviluppo, incluso un ambizioso piano per contrastare il riscaldamento globale. Ha anche ridimensionato la figura del dissidente Navalny e le sue azioni.

Riguardo l’estero, è stata menzionata solo la Bielorussia. Per il resto si è lanciato in alcune considerazioni minacciose, sottolineando che non esiterà a difendere quelli che sono gli interessi del suo paese e che vi sono delle linee rosse da non superare. Quali esse siano non lo ha chiarito, ha però proseguito affermando che queste ci sono e che la Russia le difenderà di volta in volta.

Il giorno successivo a queste dichiarazioni, il ministro della Difesa russo ha dato l’ordine ai contingenti militari di ritirarsi dalle frontiere con l’Ucraina. Ha lasciato intendere come su quest’allarme vi fosse stato un malinteso: non si trattava di un inizio di ostilità, ma semplicemente di esercitazioni e come tali andavano prese.

Sulla faccenda si era creata nell’ultimo periodo una forte tensione internazionale. Questo timore ha toccato anche un certo numero di miei amici. E’ per loro che scrivo queste pagine. Siamo in un mondo nucleare e questo ha cambiato il modo di fare politica estera. I giochi di alleanze che potevano farsi anteriormente alla Seconda Guerra Mondiale non sono più praticabili, così come è cambiato il sistema classico di garanzie ed equilibri tra le potenze.

Le dichiarazioni di Mosca hanno sgonfiato la situazione e la cosa va letta come un segnale importante. La Russia ha potuto comunque mostrare di avere a disposizione delle forze armate efficienti e di essere in grado di mobilitarle e schierarle in tempi rapidi. Una mossa distensiva dunque che ha fatto seguito ad un discorso molto duro.

Penso che questi due episodi siano da vedere nel contesto di un prossimo incontro tra il presidente Biden e lo stesso Putin e non sono dunque che parte di una tattica pre-negoziale. I due leader sanno bene quali siano i comportamenti da adottare in vista di un incontro al vertice. Ambedue hanno mostrato chiarezza e determinazione, ma quel che finirà col contare è ciò che si diranno quando si vedranno di persona.

Mentre si svolgevano questi eventi, si sono viste le autorità russe trasferire il dissidente Navalny dal carcere, dove per protesta aveva iniziato uno sciopero della fame, in una struttura ospedaliera nella quale poteva essere meglio seguito. Alcuni a lui vicini temevano per la sua vita e dichiaravano che correva il rischio di un arresto cardiaco.

Il presidente ucraino Vladimir Zelensky si era dal canto suo reso disponibile per un incontro con il suo omologo russo. Putin gli rispondeva positivamente a condizione però che fosse lui a recarsi a Mosca.

Per una vicenda di spionaggio, accompagnata da accuse di interferenze interne, la Repubblica Ceca aveva ordinato l’espulsione di 18 diplomatici russi. Mosca rispondeva per le rime, cacciandone a sua volta 20. Questa guerra diplomatica si è poi estesa alla Slovacchia e a tre paesi baltici.

Cerchiamo adesso di capire il significato della crisi ucraina, avvenuta in un contesto di continue manifestazioni popolari in Bielorussia.

Obama e le origini della questione ucraina:   il conflitto tra i due Paesi era sorto nel 2014 dopo che il presidente Obama commise l’errore di far marcia indietro riguardo un intervento armato in risposta ad un eventuale attacco chimico del regime di Damasco a danno della popolazione civile. Il presidente americano nell’Agosto 2012 aveva definito come “linea rossa” da non superare l’utilizzo di armi chimiche da parte della Siria.

Il 21 Agosto del 2013 un violento attacco missilistico colpì l’area della Ghuta alla periferia di Damasco. L’episodio ebbe notevoli ripercussioni a livello internazionale. I morti furono oltre 281, ma vi è chi ritiene che ve ne siano stati più di 1.700. I feriti furono circa 3.600. Stati Uniti, Unione Europea e Lega Araba accusarono il governo di Bashar al-Assad di aver compiuto l’azione. Al contrario, Russia ed Iran sostennero l’ipotesi di un attacco perpetrato dai ribelli.

Su iniziativa di Mosca, la crisi si risolse con l’adesione della Siria alla Convenzione internazionale sulle armi chimiche. Questa stabiliva la distruzione dell’arsenale di Damasco sotto il controllo delle Nazioni Unite.

Obama era stato chiaro: se il presidente Assad avesse violato la linea rossa da lui indicata, ne avrebbe inevitabilmente pagato le conseguenze. Non accadde nulla. Putin, che di certe cose è maestro, deve aver subito colto questo grave segno di debolezza per muoversi, occupando ed annettendo prima la Crimea e poi fomentando le forze separatiste filo-russe nella provincia orientale del Donbass. E’ stata una scommessa e ha funzionato.

Tra le due nazioni sorse un conflitto che malgrado i successivi accordi di Minsk, sottoscritti nel Febbraio del 2015 tra Francia, Germania, Ucraina e Russia, ancora non ha trovato una vera soluzione: col tempo la contesa è andata trasformandosi in quello che in termini militari si definisce un conflitto di “bassa entità”. Tra alterne vicende si è trascinato fino ad oggi e dal suo inizio vi sono stati più o meno 13.000 morti.

Si accendono nuovamente le tensioni:  si è assistito questa volta ad un insolito movimento di truppe russe ai confini del Donbass e della Crimea. Senza preavviso, tra queste due aree si erano schierati infatti poco meno di 100 mila soldati. Il Cremlino si giustificava accusando Kiev di preparare un’operazione contro i separatisti filo-russi. In vari episodi nel corso degli ultimi tre mesi erano stati uccisi 20 militari ucraini, ma non vi era motivo di parlare di una nuova offensiva. Poco dopo veniva chiuso dai russi il ponte sullo stretto di Kerch.

Di fronte a queste azioni intimidatorie, gli Stati Uniti esprimevano la loro contrarietà e preoccupazione. Il Cremlino rispondeva auspicandosi che l’Ucraina non venisse spronata dall’esterno: se ciò si fosse verificato, avrebbe scatenato “una guerra catastrofica”. A stretto giro il presidente Biden replicava che la Russia stava facendo “tintinnar le sciabole”. Le intenzioni di Mosca non apparivano chiare e non erano pochi a temere che se portate troppo avanti e superati certi limiti, queste azioni militari avrebbero potuto sfociare in un conflitto.

La Russia controbatteva che non stava minacciando l’Ucraina, ma che non avrebbe esitato a prendere le adeguate misure nell’eventualità di un’ingerenza militare straniera. Sentendosi sotto pressione, Kiev chiedeva di accelerare il suo ingresso nella Nato. Dal Cremlino giungeva immediato l’avvertimento che se ciò fosse avvenuto, la situazione non avrebbe potuto che peggiorare.

Per gli ucraini il gioco di Mosca era ammassare truppe alla frontiera, mettere in guardia contro ogni ingerenza occidentale per poi dichiararsi pronta a prendere tutte le misure adeguate. Dopo un colloquio con il suo omologo Zelensky, il presidente Biden gli confermava l’intenzione di appoggiare la sovranità territoriale ucraina. In assenza di comunicazioni in merito a manovre militari, era chiaro che con questo massiccio movimento di truppe e materiale bellico in direzione della Crimea e del Donbass, la Russia stava lanciando dei messaggi per far capire chi è che controlla la regione e soprattutto ne detiene le chiavi.

Il dissidente Navalny si trovava nel frattempo ricoverato per problemi respiratori: aveva avvertito intensi dolori alla schiena e alle gambe e lamentava violenti attacchi di tosse e febbre alta. Dal canto suo, il presidente Putin apponeva la sua firma a quella legge, sulla quale abbiamo ampiamente scritto in precedenza, che gli consentiva di esercitare altri due mandati e governare la Russia fino al 2034. Dunque una presidenza a vita che gli garantiva altri 13 anni di potere, oltre che un’immunità perenne a seguito della sua modifica costituzionale.

Questo referendum proposto lo scorso anno aveva ottenuto il 75% dei consensi. In caso di insuccesso, Putin avrebbe dovuto ritirarsi nel 2024 alla scadenza del mandato. Si accentuava così la sua presa sul paese e tutta una serie di princìpi conservatori venivano introdotti nella costituzione.

All’inizio della seconda settimana di Aprile, Mosca lanciava a Kiev l’accusa di cercare dei pretesti per scatenare un conflitto. In risposta, questa accusava la Russia di volerla distruggere. Washington ordinava l’invio nel Mar Nero di due unità della sua marina. Facendole passare per il Bosforo, anche la Russia vi aveva inviato alcune navi da guerra.

Appariva chiara a questo punto la posta in gioco strategica tra Russia, Stati Uniti e Nato. La mano di Putin non era difficile da intendere ed ecco come credo possa venir letta.

La partita di Putin il leader russo intendeva saggiare il carattere e la determinazione del nuovo presidente americano, che durante una sua intervista concessa alla rete ABC lo aveva definito “un killer”, riferendosi in particolare alla questione di Navalny.

Era anche un mettere alla prova Washington per vedere fino a che punto sarebbe disposta ad arrivare in difesa dell’Ucraina e lanciare un monito a tutti quei governi che si sarebbero sentiti incoraggiati dal cambio di guardia alla Casa Bianca.

In termini politici, non mi stupirei se egli volesse mettere alla prova anche il presidente Zelensky. Cauto e prudente, quest’ultimo sa di poter contare sugli Stati Uniti ma sa anche di dover trattare e si mostra disponibile ad un incontro con tedeschi, francesi e russi in vista di un accordo: il cosiddetto “formato Normandia”. Stessa cosa Putin faceva con la Nato e l’Unione Europea. Le sfidava a venire in soccorso all’Ucraina e rispondere a questa sua provocazione.

All’Ucraina il Cremlino voleva segnalare la sua assoluta contrarietà ad ogni forma di associazione con l’Unione Europea e la Nato. Questa improvvisa concentrazione militare alle sue frontiere poteva considerarsi un segnale per costringere Kiev ad abbassare i toni.

I suoi movimenti di truppe sono da intendersi anche come una manovra in vista di un prossimo incontro tra i due presidenti, quello americano e quello russo: si tratta di saggiare la resistenza dell’altro per vedere fino a dove è possibile arrivare.

A questi motivi di politica estera vi sono da aggiungere dinamiche interne. Ne parleremo più avanti. Mi limiterò comunque a dire che si tratta di un caso da manuale: è spesso utile creare tensioni al di fuori per distogliere l’attenzione di un Paese e far passare in secondo piano i contrasti e i problemi interni.

La crisi continua e fino a dove si sarebbe potuta spingere:   resta da chiedersi se vi fosse un serio pericolo di ripresa del conflitto nell’oriente secessionista ucraino. Chi ha l’abitudine di analizzare i meccanismi della politica estera difficilmente potrà farsi trarre in inganno: se è vero che da entrambe le parti vi siano elementi estremisti non privi di determinazione e pronti ad essere utilizzati, è altrettanto vero che sarebbero stati tenuti sotto stretto controllo. Queste azioni andavano dunque lette non come segnali di un imminente conflitto, quanto piuttosto movimenti tattici privi di conseguenze.

Ai miei occhi il presidente Putin è un abile, cinico e spregiudicato giocatore d’azzardo. Non si farà mai scrupolo di sfruttare una situazione che giudica possa tornargli utile e condurre la partita fino a dove gli sarà possibile o, meglio, consentito. E’ la politica. Non possiamo biasimarlo: non sarebbe lui se non lo facesse. Spetta agli altri ad un certo punto mettere dei paletti e dire basta. Capirà quindi che non potrà andare oltre e si fermerà.

Al Cremlino manca del tutto la capacità di proiettare un proprio “soft power” (potere di persuasione): può solo mostrare i muscoli, cosa che però non è che riprova della fragilità ideologica del regime. La Nato non esita a farsi sentire: è parte del gioco. Ma da lì ad essere pronti ad un intervento contro la Russia ce ne corre. Non resta che concludere che nessuno ha l’intenzione di entrare in guerra per l’Ucraina. Anche Kiev lo ha lasciato intendere, quando ha annunciato che non avrebbe condotto azioni militari contro i ribelli del Donbass.

Per sottolineare la loro determinazione, Stati Uniti, Francia e Germania hanno insistito nel confermare il loro appoggio all’Ucraina a seguito di questi movimenti di truppe da parte della Russia. Chi di guerra è informato, sa che in casi simili dal punto di vista militare i veri protagonisti sono oggi non le armi in sé, ma i droni. Notevolmente perfezionati dall’inizio del conflitto, questi servono soprattutto a tenere le cose sotto controllo, segnalare eventuali movimenti di truppe e materiali e garantire lo status quo. Dal 2015 la linea del fronte non si è mossa. Si tratta dunque di  provocazioni e mosse per saggiare gli avversari.

Quella ucraina è una questione ad alta valenza simbolica, che verrà alla fine risolta senza che nessuno possa considerarsi né vincitore, né vinto. A seguito di una delle telefonate di Biden a Putin, il ministro della Difesa russo ha comunicato che i movimenti di truppe sono solo manovre militari della durata di due settimane. Il presidente Putin ha poi accettato l’invito fattogli da Biden. L’incontro avverrà intorno alla metà di giugno, quando il presidente americano si recherà in Europa per una conferenza della Nato. Sono stati presi accordi con la Finlandia affinché quest’incontro possa svolgersi ad Helsinki.

In quanto a Navalny, ad alcuni suoi amici che lo hanno visitato egli è apparso pallido, dimagrito, stanco ed emaciato. Putin ha ordinato lo scioglimento di gruppi di suoi sostenitori e fatto chiudere numerose sedi del suo movimento.

Conclusioni: all’epoca della sua presidenza, Obama aveva auspicato un riallineamento dei rapporti con Mosca. Le cose sono andate diversamente. Oggi, con le sue parole e le sue iniziative, il presidente Biden sembra indicare una volontà dissimile che potrebbe riassumersi nell’idea di un confronto con la Russia quando necessario e una collaborazione quando utile. Egli non mancherà di mostrarsi risoluto, ma sa bene pure lui che un incontro con Putin è inevitabile.

In Ucraina i consensi del presidente Zelensky sono in calo. Vuole riconquistare parte dell’elettorato e per riuscirvi deve mostrarsi in grado di difendere l’integrità e la sovranità del suo Paese dallo strapotere russo. Egli è anche alla ricerca di consensi dall’estero e si è recentemente rivolto anche alla Turchia per allargare la platea dei suoi possibili sostenitori.

Questo ritiro delle forze russe di fronte ai decisi segnali inviati dalla Casa Bianca, dall’Unione Europea e dalla Nato è da considerarsi come un fattore positivo, poiché ha visto allentare la pressione di Mosca ai suoi confini orientali. Benché il Cremlino abbia dichiarato queste manovre prive di scopi intimidatori, resta da porsi la domanda per quale motivo, con l’immensità del territorio disponibile in Russia per giocare alla guerra, si sia andati a scegliere proprio la frontiera con il Donbass e quella con la Crimea. Si tratta di un evidente messaggio politico lanciato a chi lo deve capire.

Credo sia evidente a questo punto come la Russia non abbia il minimo interesse ad inasprire il conflitto. La sua economia soffre di molti problemi ed in assenza di un potere di persuasione queste minacce servono anche ad uno scopo interno: distogliere lo sguardo dei russi dalle loro difficoltà e offrire qualcosa alle forze del nazionalismo, sempre utili per rafforzare il consenso di Putin. Il presidente russo fino a dove potrà creare problemi ai suoi avversari all’estero lo farà. Al momento opportuno sarà sempre disponibile al dialogo con gli Stati Uniti.

Fomentare questa instabilità è da vedersi come un insieme di provocazioni e pressioni psicologiche, non del tutto sottili, per indurre Kiev a rinunciare ad un suo ingresso nella Nato. Questo per Mosca è cruciale: l’Ucraina, come d’altronde la Bielorussia, è parte del suo vicinato e vuole tenersele legate per farne degli Stati cuscinetto da interporre all’Europa e all’Alleanza Atlantica. E’ evidente che il presidente Putin non può accettare che il suo “near abroad” (vicino estero) entri nella Nato e che in quei territori l’Occidente finisca col dettarvi le proprie regole.

Putin difende ciò che gli resta e manda un segnale all’Occidente: a seguito della perdita dei paesi dell’Europa orientale vuole una zona neutralizzata tra l’area della Nato e le sue frontiere. Parlando di “linee rosse” da non oltrepassare, nel suo discorso al Parlamento si è mostrato molto deciso, indicando come di volta in volta sarà lui a determinare quali esse saranno.

Un simile discorso vale anche per l’Europa, che vede nell’Ucraina un baluardo a protezione dalla Russia.

E’ importante inoltre sapere che i capi secessionisti del Donbass sono sotto il completo controllo di Mosca e che l’Ucraina è oggi ben più attrezzata per battersi che nel 2014. Il cessate il fuoco sottoscritto lo scorso anno è stato rispettato: questo è un conflitto di bassa entità che quando necessario Mosca sarà sempre in grado di sfruttare. Le sue sfide però, come quelle che dovrà affrontare il presidente Putin, vanno oltre la questione ucraina e sono di ben altra importanza.

Il presidente russo non manca di realismo e non si lancerebbe mai in una guerra contro Kiev per acquisire una fetta di Donbass, area che oggi per la Russia ha perduto gran parte del suo interesse.

Guardando oltre, vi sono problemi ben più urgenti ai quali russi ed americani dovranno attendere, a cominciare da quello del disarmo nucleare. Sul lungo termine potrebbero anche accentuarsi le tensioni con la Cina, la cui forza non fa che accrescersi. Questo timore potrebbe avere la potenzialità di far riavvicinare i due Paesi. Sarà cinico pensarlo, ma per Stati Uniti, Nato e Russia è forse tutto sommato più facile proseguire con una situazione di conflitto a bassa entità piuttosto che cercare di superare nel breve gli screzi che le coinvolgono e le dividono.

In fin dei conti si tratta alla fine di un interessante copione tra questi avversari che, malgrado le tensioni in atto, parlano tra loro e sono sempre pronti a calmare le acque. Dopo tutto Biden è per Mosca ben più affidabile di Trump e non ha mancato di esprimere la volontà di relazioni più stabili con la Russia. Aggiungerò l’opinione che sui dossier caldi Stati Uniti e Russia sono disponibili ad un’intesa.

La raffica di recenti sanzioni, delle quali non si fa che parlare, è essenzialmente di facciata e non avrà forte impatto. Ve ne potrebbero addirittura essere delle altre, accompagnate forse da ulteriori espulsioni di personale diplomatico. Questo è tanto vero che la borsa di Mosca non ne ha risentito. Nessuno dei contendenti intende sfidare o provocare l’altro oltre un certo limite: faranno sempre in tempo a fermarsi ed è probabile vi siano già in corso trattative riservate.

Nessuno vuole uno scontro. Non a caso anche Zelensky ha chiesto un vertice con Macron, Merkel e Putin: l’Europa cerca il dialogo ed il compromesso, mentre lo stesso Biden chiede un calo delle tensioni e propone un incontro con il suo omologo russo. I due presidenti si stanno misurando a vicenda.

La condotta di chi governa, come d’altronde quella di ogni persona, dovrebbe essere determinata da un’idea di limite, equilibrio e misura. Non è il caso di Putin, in quanto il suo potere supera la sua educazione ed il suo grado di civiltà. Con tutta probabilità sa di vivere nell’assurdo, ma quest’assurdo va ragionato e non si può sempre andare avanti a colpi di dadi. Il rischio per lui è di trovarsi alla fine faccia a faccia con una realtà che lo superi infinitamente e lo trascini verso una sorte ignota: le cose hanno spesso l’intrinseco potere di sfuggire al controllo di chi comanda.

Tutti hanno i piedi per terra e credo che nessuno sul Donbass sembri prendersela più di tanto, così come penso che l’Ucraina non entrerà nella Nato. Una Danzica è bastata: oggi nessuno vuole morire per Kiev.

Edoardo Almagià

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