“Non c’è niente di più morto di un Papa morto”. Questa la frase attribuita a Charles De Gaulle. Il Presidente francese si riferiva con la sua cruda massima alla fine di un’era. E, ovviamente, non riguardava solo quella di un pontificato.

Di sicuro, di questa frase c’è stato spesso del vero nella storia della Chiesa. Anche in relazione ai cambiamenti intervenuti tra un papato ed un altro. In quelle fasi in cui i problemi dell’umanità subiscono tali accelerazioni, o regressioni, da imporre una sorta di discontinuità. Da intendere, in realtà, come aggiustamenti imposti per la più adeguata attuazione del messaggio evangelico.

In questi giorni siamo costretti a subire, soprattutto da una parte dei nostri commentatori televisivi, un bombardamento di dichiarazioni – persino apodittiche- o di postume insinuazioni striscianti, che vorrebbero portarci a dire che la frase di De Gaulle varrebbe in particolare per il passaggio dal mai troppo compianto Francesco a Papa Leone XIV.

Così non è. Come ci ha subito fatto intendere il nuovo Pontefice con il suo continuo richiamare Papa Bergoglio. Un riferimento particolare ed insistito. Che, in qualche modo, si distingue  dal modo in cui ciascun papa ha sempre reso omaggio al proprio predecessore. È la sottolineatura della consapevolezza che la Chiesa di oggi non ha concluso il processo auto riformatore, di ritorno al Concilio Vaticano II e del progetto di Francesco di dialogare con il nuovo mondo tenendo fermo, allo stesso tempo, l’insegnamento che viene da ciò che Maritain definiva la forza vivificatrice del messaggio di Gesù.

In Papa Prevost c’è dunque un qualcosa da cogliere in più nell’insistenza del richiamo a Francesco. E suonano così inspiegabili i tentativi di individuare forzate distinzioni che non vanno oltre ciò che, inevitabilmente, si spiega con la diversità di lessico e con differenti umane posture, senza che ciò possa essere ritenuto, invece, una presunta interruzione di un percorso.

Emblematica la polemica sulla dichiarazione del nuovo Pontefice sul concetto di Famiglia. Quella che prende  vita e si sviluppa attorno all’amore tra una donna e un uomo. Ha mai Francesco detto qualcosa di diverso? No. E la spiegazione la dà lo stesso Leone XIV quando parla di un’attitudine all’amore in connessione con l’unità della Chiesa.

L’unità nell’offerta della Dottrina cattolica e l’amore con cui tale dono viene presentato. Lo stesso atteggiamento di Papa Francesco. E solo per citare uno dei tanti punti che richiamano quella che appare tanto come una morbosa attenzione giornalistica, viene da riferirsi all’atteggiamento nei confronti delle coppie omosessuali. Pure Francesco ha sempre sostenuto l’impossibilità del riconoscimento del loro matrimonio da parte della Chiesa. Una granitica fermezza che, però, non esclude la “comprensione” di una condizione umana e il richiamo evangelico alla figura del Buon pastore. Compassionevole verso tutte le pecore del proprio gregge. Fino al punto di lasciarne da sole 99 nell’ovile e tornare a cercare quella smarrita.

La continuità Leone XIV l’ha confermata ieri anche su ciò che angoscia il mondo in questi anni. E cioè le guerre che stanno travolgendo milioni di persone in tante aree del mondo, a partire da quelle d’Ucraina, della Palestina e del Myanmar di cui tutti sembriamo esserci dimenticati.

Nel primo caso, la richiesta di una pace equa e duratura, elementi profondamente connessi ed imprescindibili tra di loro. In quello di Gaza, l’accorata richiesta del cessate il fuoco e del martirio in atto.  La stessa pietà umana e “politica” di Francesco.

Come è stato per Bergoglio, Papa Prevost resta nel pieno delle tensioni delineatesi tra la Chiesa e un certo Occidente, come sottolinea l’interessante la riflessione condotta da Sohrab Ahmari – un americano di origine  iraniana, come il Vicepresidente Usa J.D.Vance convertitosi al cattolicesimo, e anch’egli considerato un conservatore- su UnHerd (CLICCA QUI), che fa riferimento ad un sottostante “scontro molto più profondo di visioni del mondo e sensibilità: tra una fede fondamentalmente universalistica e le popolazioni occidentali stanche dell’universalismo, o almeno di quello liberale. Tra un popolo che si rifugia nel nazionalismo e una Chiesa chiamata a battezzare panta ta ethnē (“tutte le nazioni”). Tra l’orgoglio e il particolarismo del “grido” appalachiano ( quello della destra della parte orientale degli Stati Uniti, ndr) e un organismo vecchio di due millenni che ha ereditato le forme amministrative dell’Impero romano”.

La venuta a Roma del Vicepresidente Usa J.D.Vance accompagnato dal Segretario di Stato Marco Rubio, entrambi dichiaratamente cattolici, ci ricorda che molto di quello scontro si gioca nella terra d’origine del nuovo Papa.  E c’è chi pensa- è il caso del New York Times (CLICCA QUI)- che la destra statunitense provi a “risettare” i rapporti con la Chiesa di Roma. Cosa che dipenderà dai punti di vista giacché non sembra proprio che Leone voglia su tanti punti dell’agenda papale allontanarsi dall’insegnamento di Papa Francesco. A partire da quelli del rispetto della dignità umana e del lavoro e delle migrazioni. Non è stato proprio un caso che abbia subito ricordato di essere nipote di migranti e di essere stato migrante anch’egli.

Come afferma Sohrab Ahmar,  la Chiesa non può piegarsi al populismo dei nostri tempi più di quanto non poté subirlo, ad esempio, all’ondata napoleonica dei primi anni del XIX secolo.

Giancarlo Infante

 

 

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