Grande sorpresa. E ancora più grandi interrogativi. Questa l’inevitabile reazione degli ambienti politici americani a quanto accaduto la settimana scorsa, alla fine di Giugno, dopo che – dalle elezioni presidenziali tenutesi a Novembre dell’anno scorso, e soprattutto a partire dal 20 Gennaio, giorno dell’effettivo passaggio dei poteri – essi avevano dovuto assistere al pirotecnico, ma anche deprimente spettacolo dei tentativi del nuovo Presidente di stabilire i punti essenziali del regime trumpiano. Quello che avrebbe dovuto restituire all’America la propria grandezza e garantire la sua egemonia sul mondo.
L’insuccesso di questi tentativi era rapidamente apparso evidente, per non essere egli riuscito a concretare nessuna delle sue principali promesse elettorali. Non solo quella che gli aveva portato il maggior numero di consensi nelle urne e di simpatie nell’opinione pubblica europea – cioè la pace in Ucraina; da realizzarsi nientedimeno che nel giro di 24 ore. Ma anche l’annessione del Canadà, per la quale egli immaginava di trovare una sostanziale accettazione. E neanche la brutale imposizione della cessione agli USA della spopolata Groenlandia da parte di un paese profondamente pacifico come la Danimarca, e con meno di sei milioni di abitanti.
Lo stesso si poteva dire di ciò che egli aveva promesso relativamente al rilancio dell’economia americana attraverso i dazi, attraverso l’espulsione di tutti i lavoratori irregolari, attraverso le misure contro le grandi istituzioni accademiche, eccetera. Tutte iniziative con cui egli non è riuscito ad ottenere i risultati sperati, anche perché esse hanno sollevato fortissime opposizioni nella società americana, e tra le file stesse dei suoi elettori.
Le guerre tariffarie, in particolare, si sono rivoltate contro il nuovo Presidente statunitense. E le sue iniziative clamorose, come gli improvvisi voltafaccia, hanno creato forte nervosismo nei mercati finanziari. Ed in tutti coloro che avevano impostato (o meglio, avevano dovuto forzatamente impostare) il proprio modo di lavoro, il proprio stile di vita e i propri interessi secondo i parametri nati e mondialmente imposti dal trentennio della globalizzazione.
Inevitabilmente, le turbolenze dei mercati da lui determinate – dall’umile mercato del lavoro a quelli ultrasofisticati della finanza e dell’innovazione tecnologica – hanno sollevano anche una domanda che attende ancora una risposta addirittura da quando Trump ha ottenuto la sua prima presidenza, nel novembre 2016. Quali sono davvero e quanto sono potenti le forze che hanno eletto quest’uomo? Quanto diffuso e influente quello che è stato denominato il “Movimento MAGA”?
Appropriarsi di una vittoria
La risposta a questo interrogativo non è evidentemente stata assai incoraggiante, ed ha creato, per Trump, l’urgente necessità di esibire una vittoria. E lui – che come tutte le persone poco intelligenti crede di essere furbo – ha così preso la decisione di sposare una causa in cui, per una volta, la vittoria fosse assicurata. E ne ha trovata una già pronta: quella di unirsi ad Israele contro il regime degli Ayatollah. Dapprima dichiarando che gli Stati Uniti avevano il controllo totale dello spazio aereo iraniano. (Il che non era vero. Era Gerusalemme e non Washington a far scorrazzare impunemente i suoi aerei da guerra sopra l’immenso territorio iraniano!)
Poi ha provato a darsi un margine temporale, da utilizzare per fare la faccia feroce. Ma si è subito dovuto render conto che due settimane erano più di quanto non necessitasse ad Israele per far ripiombare l’Iran all’età della pietra di einstaniana memoria; mentre invece egli cercava di far credere che ciò fosse fattibile solo per lui, e assai rapidamente, grazie alle buster bombs. E che se voleva appropriarsi dello scontro e della vittoria doveva fare in fretta.
Trump si è così venuto così finalmente a trovare nella posizione di poter fingere – ma solo con se stesso, perché l’evidenza è rimasta sotto gli occhi di tutti – di essere l’uomo che poteva gettare il mondo in una guerra, o poteva risparmiargliela.
Certo, per il suo delirante narcisismo questa non poteva essere che una magra soddisfazione, qualcosa palesemente molto lontano dalla sua ambizione di essere l’uomo più potente del mondo. E che non lo è perché le condizioni per pretendere ora di dimostrarlo non le aveva create lui, bensì Israele con la profonda, decennale penetrazione della sua intelligence nella Repubblica Islamica, e con il precoce controllo dello spazio aereo iraniano.
Intervenendo nella guerra dal lato di Israele, egli ha insomma cercato un’ulteriore occasione per vantare i propri meriti, i presunti debiti di riconoscenza da tutti o quasi gli attori della scena internazionale. Per pretendere di essere quello che avrebbe sempre voluto e desiderato. Cioè per atteggiarsi come se effettivamente fosse l’uomo più potente del mondo.
Peccato però che ha potuto dimostrarlo solo facendo non qualcosa che egli stesso ha promesso al suo elettorato; il quale, peraltro, di guerre, specie in Medio Oriente, non vuole sentire più parlare. Ma facendo qualcosa che era invece negli obiettivi e nel programma del più forte e coerente partito politico americano, quello dei cosiddetti neo-conservatori, di cui i MAGA si erano illusi di scuotere il predominio. E cui egli sembra oggi accodarsi opportunisticamente, per avere infine la possibilità di auto-ingannarsi, fingendo di essere stato l’arbitro di una scelta e di una vittoria che non sono le sue.
Un prezzo imprevisto
E peccato soprattutto perché così facendo egli ha spinto il suo più genuino e popolare elettorato a cercare altre vie, che sono risultate del tutto nuove, per esprimere il proprio scontento. Ed ha così aperto la strada non solo a manifestazioni popolari che, partite dalla California, si sono propagate all’America intera, ma anche all’inattesa vittoria alle primarie Democratiche per la carica di sindaco di New York City, da parte di un trentatreenne deputato statale di origine indiana Zohran Mamdani. Il quale – sconfiggendo l’ex governatore Andrew Cuomo – potrebbe, se vincerà le elezioni municipali di novembre, diventare il primo sindaco musulmano della città più americana del mondo.
Vincitore a sorpresa in una competizione elettorale di peso, Mamdani non è uno sconosciuto. Prima di intraprendere una rapidissima carriera come esponente del Partito Democratico, egli era un rapper. E più precisamente una personalità che – definendosi un “rapper di serie B” sul suo account X – era asceso a notevole notorietà già subito dopo il suo debutto, nell’aprile 2019.
Significativamente, la vittoria di questo ingombrante democratico di origine indiana alle primarie per la carica di sindaco di New York, ha fatto uscire dal silenzio persino un vistoso e discusso personaggio che pareva, nelle ultime settimane, essere stato quasi dimenticato.
Su X, la ex-Twitter, contro Zohran Mamdani, è infatti tornato a sfoderare il suo umorismo quel gigante della tecnologia e dell’esibizionismo che è Elon Musk; e ciò solo pochi giorni dopo la sua uscita dalla Casa Bianca e da una brutta fase di rottura con il presidente degli Stati Uniti. Tanto da far pensare che nell’estrema destra americana tutto potrebbe ora andare a posto, dato che Musk ha scelto di scherzare su cose serie. Non solo sulle recenti tensioni tra Iran e Israele. Ma anche sulla vittoria del democratico Mamdani nella corsa per la carica di sindaco di New York.
Riferendosi ad un messaggio di congratulazioni che l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton avrebbe inviato a Mamdani, Musk – che non riesce a nascondere la sua irrequitudine – sembrava chiedersi perché mai l’ex presidente democratico avesse fatto gli auguri a questo insolito candidato, dato che in precedenza aveva appoggiato l’ex governatore Andrew Cuomo nella corsa a sindaco di New York. Ha anche scherzato su LinkedIn pubblicando un meme che mostrava un’immagine della sede centrale del sito dello stesso LinkedIn, dove invitava l’Iran a non bombardare “l’impianto nucleare segreto”.
Mamdani, che ha iniziato ad esibirsi come rapper quando era ancora a scuola, dieci anni fa, non si è infatti lasciato intimorire e ridimensionare da quello che è ancora l’uomo più ricco del mondo. E del resto, già nel 2017, in un post su Twitter, aveva scritto: “Sapete che sarò per sempre divertente. Ma mi prendo una pausa dall’essere spiritoso per rispondere alla domanda su cosa succede quando un rapper di serie B si candida per una carica pubblica. ……… Mi candido per l’Assemblea dello Stato di New York … e lo faccio perché passo ogni giorno al lavoro a scontrarmi con l’eredità delle politiche fallimentari di Albany. I nostri rappresentanti hanno trasformato le case di famiglia in immobili da investimento, lasciando che l’edilizia popolare cadesse in rovina e in stato di abbandono”.
Un immigrato un po’ speciale
Mamdani, è nato fuori dagli Stati Uniti, a Kampala, in Uganda, ma è emigrato a New York con la sua famiglia quando aveva sette anni Ed è diventato cittadino degli Stati Uniti solo 2018. Ma appena due anni dopo, nel 2020, già si era presentato alle elezioni per il Parlamento dello Stato di New York – the Assembly –, era stato eletto, e da allora partecipa molto attivamente al governo dello Stato di New York. Da lì potrebbe ora spiccare il salto verso il governo della megalopoli americana, Con un programma peraltro i cui contenuti, riecheggiano un’impostazione ideologicamente socialista, o che comunque possono decisamente essere considerati “di sinistra”. Non solo in materia di abitazioni e di affitti, ma anche nel campo dei trasporti urbani (di cui promette la gratuità) e della grande distribuzione alimentare, che pensa di rendere più accessibile agli strati popolari attraverso catene commerciali di proprietà comunale.
A Mamdani, per riportare nel dibattito politico americano, temi di questo genere, che parevano esser cancellati per sempre, non manca il pedigree giusto. Suo padre
l’Accademico Professor Mahmood Mamdani, musulmano anche lui, insegna infatti nient’altro che Post colonial Studies alla Columbia University. E la madre, Mira Nair, originaria del Punjab e di religione induista, è una regista molto nota nella New York intellettuale, dove egli stesso ha una grande visibilità
Questo esponente indiano di quella categoria sociale che i Francesi chiamano “la gauche caviar” ha ovviamente anche lui il suo orgoglio e le sue vanità. Egli infatti non esita a definire se stesso – che pure è diventato cittadino americano solo nel 2018, come “the worst nightmare”, il peggior incubo del nuovo (e al tempo stesso molto ex-) Presidente americano Donald Trump.
Ed effettivamente, in passato, Donald Trump – da presidente degli Stati Uniti in carica – lo aveva attaccato duramente. In due post su Truth Social, il presidente degli Stati Uniti non solo ha aspramente criticato Mamdani. Ma ha finito per promuoverlo ad oppositore di rango, per averlo associato ad altri leaders democratici che egli odia, tra cui Alexandria Ocasio-Cortez, rappresentante degli Stati Uniti per il 14° distretto congressuale di New York. E per averlo definito “un lunatico comunista al 100%…. che ha appena vinto le primarie democratiche e sta per diventare sindaco.”
E ha aggiunto:“abbiamo già avuto esponenti della sinistra radicale, ma questa sta diventando un po’ ridicola. . . . Mamdani ha un aspetto terribile, la sua voce è stridula, non è molto intelligente, e tutti gli idioti lo sostengono. Persino il nostro grande senatore palestinese, Chuck Schumer, che piange, gli si prostra davanti”, ha detto Trump, aggiungendo – con un commento che si vorrebbe sarcastico – “Sì, questo è proprio un grande momento nella storia del nostro Paese!”
Giuseppe Sacco