C’è il rischio di cadere nella retorica, ma non si può fare a meno di rendere omaggio ai nostri campioni olimpici e gioire delle loro vittorie, come abbiamo gioito per gli europei di calcio.

L’amore per la Patria, l’attaccamento ai nostri colori non ha nulla a che vedere con la postura “patriottarda” di un nazionalismo becero che, se poteva avere una parvenza di legittimità in altre epoche storiche, oggi, nel tempo della globalizzazione, contraddice e nega quei valori “universali” propri della nostra storia e della nostra cultura che, a parole, vorrebbe rivendicare.

“Universale” è, del resto, lo sport ed universali sono i valori umani, prima che tecnici, che mette in gioco.  Rappresenta una sorta di “esperanto” che semplicemente ridicolizza – e la forza del ” ridicolo” è formidabile – ogni barriera di carattere etnico o linguistico, storico o geografico, sociale o politico o religioso.

I giornali scrivono che lo sport spinge l’Italia ed, in effetti, quei due italiani, dai cognomi diversi, che si corrono incontro e si abbracciano, avvolti nel tricolore, ripresi dalle tv in ogni continente, un segno lo lasciano. Soprattutto – è facile immaginare – nel cuore di quegli italiani e dei loro discendenti sparsi in ogni angolo del mondo, che onorano il nostro Paese, eppure forse ancora ricordano le diffidenze, le angherie, il sospetto e spesso il disprezzo che hanno sofferto da migranti i loro padri ed i loro nonni.

Dovrebbe bastare la memoria storica del loro sacrificio – che rappresenta un patrimonio che concorre alla formazione del nostro carattere nazionale – ad immunizzarci, ma purtroppo non è così, dalle posizioni strumentali e xenofobe di quei difensori dei nostri sacri confini che, ai tempi della Padania secessionista – che rappresenta la loro vera radice – e forse tacitamente tuttora, tifavano espressamente contro l’Italia, perfino ai mondiali di calcio. Esattamente come quei comunisti che tifavano URSS.

C’è chi ha osservato pesantemente – soprattutto al momento degli europei, a riguardo dei calciatori – che si tratta di ragazzi “milionari” ed è una considerazione francamente fuori luogo. Anche perché non si tratta di “enfant gate'”, ma di giovani che, per raggiungere certi traguardi, prima che con i loro avversari, devono misurarsi con sé stessi.

E lavorare, lavorare duramente, a lungo, su stessi, con una costanza cocciuta. Spesso riemergendo da incidenti di percorso che avrebbero potuto fiaccare la loro determinazione. Lo sport a certi livelli esige una vera e propria ascesi psichica e mentale, senza la quale ogni progresso fisico, muscolare e tecnico rischia di essere del tutto precario.

Si tratta di giovani che – è soprattutto questo ad onorare il loro impegno – sanno come anni di fatica e di disciplina, in definitiva la loro scelta di vita, sia esposta alla più completa aleatorietà. Nel breve volgere di pochi secondi, nel tempo – quasi infinitesimale rispetto ad anni ed anni di allenamento e di impegno – di un solo gesto atletico, si cela il mistero dell’imperitura gloria sportiva o di uno sconfortante insuccesso.

E’ una scommessa dura da sostenere e questi ragazzi sono capaci di reggerla. Ieri hanno vinto, eppure se avessero perso avrebbero meritato meno la nostra gratitudine?

E viene da pensare a quei tanti giovani che praticano, anzi vivono seriamente lo sport e se non arrivano all’ oro olimpico, vincono l’alloro del loro impegno nella vita. E per quanto riguarda noi che osserviamo queste imprese dal divano, per una volta dovremmo lasciare da parte il pudore dei nostri sentimenti e non vergognarci di sentirci commossi al suono del nostro inno.

Domenico Galbiati

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