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L’ “anti-realismo” del nazismo ed il “realismo” della Resistenza

Dovunque in Europa la RESISTENZA ha contrastato l’ anti-realismo del potere nazista. Per questo essa si è posta l’obiettivo non solo di sconfiggere nazisti e fascisti, ma di disciplinare la forza selvaggia della guerra o addirittura di estirparne in prospettiva le radici profonde. E’ indiscutibile che la RESISTENZA sia stata, nelle sue finalità,   anche un’azione ( armata e non armata) per porre le basi della pace.

Non una “pace attraverso il diritto” ( Hans Kelsen) ma neppure una “pace attraverso  la forza”( quella che oggi si sostiene con incredibile leggerezza dai vertici UE)  non una  “pace delle armi”, ovvero la pace imposta dalle armi, bensì una “pace attraverso la forza morale”, prima ancora che materiale , di migliaia e migliaia di persone, una forza certo anche armata, ma non solamente armata e comunque mai auto-legittimata dalla superiorità dei mezzi materiali.

La RESISTENZA europea è stata dunque prima di tutto espressione di scelte che rimandano ad un compito che è anche destino e che è la cifra vera e direi permanente dell’ Europa, oggi come nel 1951 (ved. Domenico Galbiati, L’ Europa come compito e come destino, in Politica insieme 14 aprile 2025), la cifra della unità che è data dal compito di disciplinare il potere.  Non ogni tentativo di unione europea ha perseguito questo scopo nella storia. Anzi nessun tentativo sino al 1950 lo ha mai perseguito:  Carlo Magno, Carlo V di Asburgo, Napoleone, persino Hitler hanno cercato di unire in qualche modo l’ Europa, ma mai lo hanno fatto con la finalità predetta. Tutti questi tentativi erano stati guidati appunto dall’ anti-realismo di un potere in senso lato assoluto,  che proponeva costruzioni politiche  astrattamente imposte, senza mai porsi il problema dei limiti.

Porre un limite al potere di imperio degli stati a partire dal potere di fare guerra, e porre le basi di un potere diverso per il dopo guerra. E’ stato questo  l’obiettivo unificante della Resistenza europea. Ed è stato questo l’embrione della costruzione europea.

Resistenza e costruzione europea

Il popolo è a volte più saggio del principe, come riconosce, in un passo dei Discorsi sopra la Deca di Tito Livio,  persino il padre del “realismo politico”, Niccolò Machiavelli. Lo Stato totalitario  come negazione totale del valore della persona-  e di persone è fatto il popolo- è stata forse la molla che ha suscitato e causato in profondità il movimento della Resistenza. Dal popolo degli anonimi,  dal “realismo” semplice, ma lineare dei tantissimi  “senza potere” è nata la Resistenza.

Ma di qui è nata anche l’idea originaria di una costruzione europea, che pur fu patrimonio, all’inizio, di ristrette anche se battagliere èlites politiche. Il problema di una costruzione europea si era già posto in effetti nel corso della grande guerra  1914/18, ed al suo termine. Ma allora l’idea non riuscì ad attecchire. Non poteva mettere radici. La grande guerra aveva infatti alimentato il “mito della democrazia delle frontiere, dei confini e  dei plebisciti” aveva sacralizzato il mito  delle frontiere naturali ed aveva quindi affidato alla ridefinizione “chirurgica” delle frontiere un ruolo essenziale, ma inadeguato,  nella soluzione dei problemi internazionali.

Come si poté vedere subito  e come poté notare uno dei futuri padri dell’ Europa Jean Monnet (1888- 1979), dal 1920 al 1923, segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni. In questa funzione, nella Slesia del 1921, Monnet fece l’esperienza che sarebbe stata, come lui stesso racconta , fondamentale per costruire la CECA trent’anni dopo . L’alta Slesia , bacino carbonifero abitato da una popolazione mista tedesca e polacca, è una sorta di “triangolo industriale omogeneo” come quello della Ruhr, della Lorena e del Limburgo, per il quale si sarebbe inventata trenta anni dopo la CECA. Nel 1921 Monnet iniziò a capire che non bastava fissare dei confini di stato -il compito principale che era stato assunto dalla Conferenza della pace di Parigi-, ma si trattava soprattutto di stabilire uno statuto comune per uomini e prodotti posti dall’uno e dall’altro lato di un confine artificiale.  I plebisciti e l’autodeterminazione nazionale non potevano fornire alcuna soluzione laddove le culture e le etnie erano così intrecciate come in tutta l’ Europa orientale. Come mostrarono le successive insurrezioni della Slesia.

I nazionalismi non potevano essere un mezzo per costruire la pace. Le persone e le merci dovevano poter passare liberamente i confini. Erano necessarie regole concrete e accettate da entrambi gli Stati e gestite congiuntamente. Era ancora una volta necessario disciplinare e limitare il potere statuale.

La “invenzione” della comunità internazionale nel 1945  

E’ stata dunque la Resistenza come fenomeno europeo e transnazionale- un elemento non presente nel primo conflitto mondiale-    a favorire una concezione diversa delle relazioni internazionali, delle relazioni tra i popoli, negando quella sovranità assoluta dello Stato-nazione che aveva raggiunto il suo acme col nazifascismo.

Obiettivo della Resistenza è non solo rovesciare un regime dittatoriale interno, ma anche quello di  progettare un ordine internazionale diverso. Lo si avverte nella stessa formulazione  dei primi volantini della Resistenza,  che alla dignità della persona umana, alla “fraternità” ed alla pace fanno spesso esplicito riferimento. E’ evidente che la guerra- la guerra totale nel nostro caso- è percepita come il risultato finale di una anomalia non solo nei rapporti interni agli Stati ma anche  nelle relazioni   internazionali.

Scrive il comunista Concetto Marchesi nell’ Appello agli i studenti della Università di Padova  che egli si appresta a lasciare per passare in clandestinità: “ Studenti, mi allontano da voi con la speranza di tornare a voi , maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’ Italia dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione  in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo” Appello agli studenti,  28 novembre 1943

E scrive un  quotidiano cattolico pochi giorni dopo: “ E’ con profonda commozione  che abbiamo letto e pubblichiamo le parole  dell’amico Marchesi….Ora in nome dello spirito, del pensiero, della persona umana, l’Università italiana nel suo vetusto e glorioso Ateneo , ha nobilmente riaffermato la sua volontà di lotta contro il nazifascismo, lotta in cui è impegnata tutta l’umanità e in cui gli uomini di studio e di scienza di ogni paese gioiscono di essere fratelli agli operai e ai contadini” .”Studenti in piedi!”  ne: “Il popolo” Roma 31 dicembre 1943.

Per la Resistenza dunque le relazioni internazionali non  sono più il terreno in cui si confrontano gli Stati nazione e le opposte alleanze, con la finalità di stabilire un equilibrio di pesi e rapporti di forza  che assicuri la pace.  Anche oggi piace a molti pensare ( o illudersi) che la “deterrenza” assicuri la pace.  Chi pensa così ignora  che le relazioni internazionali sono in primo luogo relazioni tra popoli e quindi tra economie e società, ed in secondo luogo soltanto relazioni tra Stati. Ciò che oggi viene non ignorato, ma apertamente negato dai nazionalismi assoluti che perseguono uno sviluppo protetto da barriere doganali come muraglie cinesi e orientato verso una relazione predatoria col resto del mondo ( un esempio la corsa alle “terre rare”) in una sorta di belluina lotta per la sopravvivenza, eufemisticamente chiamata competitività o nuova geopolitica mondiale.

Le relazioni internazionali per gli uomini che escono dalla Resistenza  sono invece l’ambito entro cui si sviluppa la vita sociale dei popoli, che non si esaurisce nei confini degli Stati nazionali, una sorta di dilatazione estrema della “patria”. Esattamente ciò che ci ha fatto capire in positivo la globalizzazione.  La vita sociale dei popoli si può esprimere pienamente solo in una comunità di Stati che dovrebbe divenire una “vera comunità internazionale”.  E’ la premessa per dar vita a un “vero e non fittizio ordine giuridico che subordini o conformi la politica degli Stati alla superiore esigenza della comune vita dei popoli”. Per realizzare quell’ordine giuridico che l’ ONU e altre organizzazioni non sono riuscite a garantire.  E ciò richiede il superamento del “falso dogma della sovranità assoluta dello Stato , fonte e premessa di ogni ingiustizia e di ogni violenza internazionale  e ragione precipua delle crisi e dei fallimenti avvenuti in tutti i tentativi di organizzazione di una comunità internazionale”.  Potremmo aggiungere, ragione oggi della crisi dell’ ONU.

In  questi termini, qui sopra sempre virgolettati, si esprimeva la sezione VII del testo finale del Codice di Camaldoli  ( 1945), il noto documento elaborato da un gruppo di studiosi e politici provenienti dal mondo cattolico, in straordinaria convergenza con quanto scritto nelle conclusioni centrali del Manifesto di Ventotene, soprattutto a proposito del problema della sovranità assoluta degli Stati. Due testi che ben sintetizzano il rilevante contributo della Resistenza europea in materia.

E’ questo un pensiero che anche oggi- forse ancor di più oggi del 1945 –  può servire a configurare un nuovo modo di essere della “globalizzazione”, un tempo osannata ed oggi rapidamente archiviata.

L’internazionalismo della RESISTENZA europea ci porta infatti oltre la “globalizzazione”. Ritroviamo nelle pagine scritte nel corso del secondo conflitto mondiale quell’ ’idea di una “comunità internazionale”, che ci potrebbe proteggere oggi dalla nuova ideologia tecno-liberista  della competizione assoluta e della weaponisation sinora “serenamente” accettata, per cui le relazioni tra popoli si modellano su quelle di competizione e di sfiducia, cioè su quelle di una guerra “ibrida”, di fatto sempre armata ( tutto è o può essere arma!), e creano nuove  muraglie e nuove barriere.

Diversamente dalla “globalizzazione” che si limita a far circolare senza impedimenti tecniche, prodotti e capitali, ma anche senza conoscere o prevedere gli effetti della propria azione, l’universalismo di una “comunità internazionale” non si affida ad una libertà intesa come assenza di regole, ma preserva ciò che è locale, e tende ad  armonizzarlo con ciò che è diverso e complementare. La complementarità dei diversi dunque rimpiazza la contrapposizione degli opposti, l’unica distinzione che alberga nella testa del “sofista ignorante”, descritto da Platone, cioè  la guerra.

Le “armi” della pace, non la “pace delle armi”

E’ questa complementarietà di popoli e di persone,  scoperta e riconosciuta dalla ragione, ben chiara ai Resistenti che combattevano in nome della pace,  che mette ai margini della vita sociale la guerra, anche se non la elimina dalla storia.  Una cosa però dovrebbe esser chiara. La pace vera, anche quella delineata dai Resistenti,  è armata non è disarmata, come ha lasciato scritto Papa Francesco nello splendido  Messaggio Urbi et Orbi che ci ha donato nella Pasqua 2025, l’ultimo giorno della sua vita terrena. Bisogna però precisare quali sono le armi vere della pace.

“Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma a usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere la fame e favorire iniziative che promuovano lo sviluppo. Sono queste le “armi” della pace: quelle che costruiscono il futuro, invece di seminare morte!”

Le “armi” della pace sono quelle che rifiutano la logica della paura e della chiusura nel presente. Quelle che non rifiutano il tempo e conoscono solo lo spazio e l’immediatezza cieca  del presente. Le armi vere sono quelle che costruiscono la relazione umana, invece di distruggerla, per “semplificare” mostruosamente la vita, come avviene nella impossibile e assurda “pace delle armi”. Sono le armi della giustizia e della verità, quelle sì davvero invincibili nel giudizio finale descritto dal libro della Sapienza : “Il Signore indosserà come corazza la giustizia e cingerà come elmo un giudizio senza finzione” ( Sapienza, 5/18). Ma decisive già oggi nella lotta per disciplinare e umanizzare il potere come si era ben capito   nella RESISTENZA EUROPEA.

Umberto Baldocchi

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