“Ora e sempre Resistenza”! Un monito valido  anche oggi?

Ancora attuale il messaggio della Resistenza, ottanta anni dopo? Ancora attuale il monito di Calamandrei?   Si è scritto in questi giorni che la Resistenza italiana è stata la miglior testimonianza di un recuperato senso di identità nazionale  degli Italiani, della volontà di indipendenza, in contro-tendenza rispetto alle mire e alle convenienze delle grandi egemonie che si profilavano già nella nuova spartizione del mondo del 1945 ( Andrea Manzella,  L’altro valore della Resistenza, Corriere della Sera,  5 aprile 2025).

Se anche questa valutazione, pur con alcune importanti distinzioni, è confermata dalla storiografia e sottoscrivibile, sarebbe, credo, estremamente riduttivo, forse anche strumentale, parlare in questi termini di un evento come quello resistenziale che ebbe- ricordiamolo- una portata europea ed epocale.

Perché non rileggere allora anche in un contesto più ampio  la celebrazione dell’ottantesimo del 25 aprile? Perché non rileggerla in connessione anche alle questioni epocali della pace, della guerra e dei problemi mondiali, quelli da cui dovrebbe partire ogni discorso politico all’altezza dei tempi?

Resistenza: l’uso corrente  e il significato storico della parola

Una rilettura del fenomeno della RESISTENZA, italiana ed europea,  ad ottanta anni dal 25 aprile 1945, mai forse come oggi può esser utile per comprendere meglio ciò che genera il dramma epocale della democrazia e della cultura civile che stiamo vivendo non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo, di fronte alle mutazioni oligarchiche di alcune democrazie liberali e soprattutto di fronte  al nichilismo dei neo-imperialismi , dei poteri politici tecno-finanziari, post-umani o trans-umani,  che rifiutano apertamente, come mai prima di ora, i limiti della realtà e della ragione e che propongono l’idea della guerra come fenomeno ubiquitario e globale, in un certo senso permanente, capace di bloccare ogni idea di progettazione del  futuro e di una  vita comunitaria  e cioè umana.

Cominciamo questa riflessione dalle parole, che sono la base di ogni vero dialogo umano. Spesso di recente il termine RESISTENZA, che certo implica un tipo di guerra, è stato evocato anche in  relazione alla guerra di difesa dell’Ucraina contro la Russia, ed  ovviamente questa è una operazione più che legittima. Basta esser chiari però sul senso in cui usiamo il termine.

Il  termine  “resistenza” ( con la r minuscola) era stato del resto già usato in casi simili, e  peraltro anche in una guerra di un secolo fa, verificatasi proprio nell’ Europa orientale, laddove, nei territori  dell’ ex-Impero zarista, stavano emergendo nuove nazionalità che chiedevano indipendenza, proprio nel momento in cui si andava strutturando il regime totalitario del comunismo sovietico .

Tra il 1919 e il 1920, per una ventina di mesi, ebbe luogo la guerra polacco-sovietica, un conflitto nato sull’onda delle tensioni create dai tentativi sovietici di collegare la rivoluzione russa a quella che si attendeva in Germania. Fu in questo contesto che nell’estate del  1920, lo Stato polacco  venne attaccato in forze dall’ Armata Rossa guidata dal prestigioso generale Michail Tuchacevskji.  L’intento aperto e dichiarato era quello di bolscevizzare la Polonia per promuovere la “rivoluzione” nel continente europeo.

Alla vigilia dell’attacco dell’ Armata Rossa, nel Proclama di mobilitazione del Consiglio di Difesa dello Stato polacco del 3 luglio 1920, il capo dello Stato Jozef  Pilsudski  così usò il termine in questione : “Dobbiamo predisporci alla resistenza come un muraglia compatta, inamovibile. L’ invasione armata del bolscevismo si deve infrangere sul petto della nazione intera ”.

Laddove “resistenza” è una espressione che richiama  la necessità della compattezza di tutte le forze della nazione nella  guerra difensiva contro l’invasore.

Ed anche l’Ucraina di oggi, sotto questo aspetto particolare, richiama proprio il caso della Polonia del 1920. Va però detto che l’analogia presenta anche forti differenze, per gli esiti rapidamente e sorprendentemente vittoriosi della  “resistenza” polacca- che ebbe la meglio nel giro del mese di agosto 1920 sull’Armata Rossa senza alcun supporto di forze armate esterne (vi fu solo  il supporto di  una  missione militare francese),  e per la presenza di un dichiarato e propagandato progetto di espansione continentale sovietica che rendeva all’epoca più che sensato affermare che “la Polonia difendeva la libertà dell’ Europa” . L’Ucraina certo oggi combatte una legittima guerra di “resistenza nazionale”, in difesa della propria identità nazionale e statuale.

La RESISTENZA EUROPEA del 1941/45 è però stata  ben altro. Il termine RESISTENZA  applicato ad una serie di eventi che ebbero luogo in Europa nell’arco del secondo conflitto mondiale è stato, in questo caso,  un termine inizialmente impiegato soprattutto in documenti e testi francesi (Charles De Gaulle aveva dichiarato nel 1940, dopo l’occupazione nazista della Francia,  “ La fiamma della resistenza francese non  si è spenta e non si spengerà”) e successivamente poi utilizzato, solo anni dopo l’evento, dalla storiografia italiana (che usò invece all’inizio il termine “movimento di liberazione nazionale”) anche se, per la verità, era già presente nella stampa coeva , con la “r” minuscola, inteso nel suo senso più letterale, per designare un movimento essenzialmente auto-difensivo e di opposizione all’occupante nazifascista, un po’ come nel documento polacco.  Spesso si preferivano però altri termini per definire il fenomeno. All’inizio Luigi Longo, dirigente comunista, ad esempio,  nell’ottobre 1943 telegrafando a Mosca parla di “guerriglia” che sta iniziando nell’ Italia occupata dai nazifascisti. Altre volte i comunisti italiani usarono il termine “resistenza” solo per designare la fase iniziale della guerra di liberazione.

La storiografia degli ultimi decenni, preso atto del carattere complesso della Resistenza italiana, ad un tempo stesso guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe ( una complessità che aveva favorito in passato le semplificazioni e le strumentalizzazioni settarie del tipo “Resistenza rossa” e che favorisce oggi invece l’insistenza esclusiva sull’antifascismo, sulla lotta contro il presunto “riemergere del fascismo”) ha consentito una rivisitazione critica, passata anche dalla mole straordinaria di storie locali,  dell’evento. Si è così potuta scoprire, accanto alla “zona grigia” del compromesso, l’ ampiezza straordinaria dell’area della “resistenza civile” (pensiamo alla “resistenza senza armi” degli IMI o Internati Militari Italiani o alla  molteplice partecipazione delle donne, del clero e del mondo cattolico ). E ciò ha consentito di riformulare il concetto di Resistenza, in un senso molto più ampio e più forte, dotandolo di un nuovo contenuto.

La RESISTENZA si è venuta a configurare così come l’atto collettivo di una vera comunità civile che,  coinvolgendo militari sbandati,  donne e civili, armati e non armati, si oppone con azioni di tipologia varia, ad una guerra di aggressione e/o occupazione – nel nostro caso ad una “guerra totale”- che nega la dignità stessa della persona, ben sapendo di essere  più debole della controparte e di non avere alcuna garanzia esterna preventivamente assicurata, materiale o militare,  per una probabile, o anche solo possibile, “vittoria finale”.

Dentro la RESISTENZA: dalla NAZIONE alla PATRIA, dalla conflittualità alla fraternità

Ma in nome di che cosa lotta il “Resistente”? Nel caso italiano si pone un problema particolare, in conseguenza della dissoluzione dello Stato dell’ otto settembre. In che senso parlare di una lotta per la difesa dell’identità nazionale , quando la nazione italiana ha visto crollare il proprio Stato, è stata costretta all’armistizio, dopo aver  condotto una guerra devastante e disgraziata fuori dai propri confini?  Che senso poteva avere battersi per la nazione italiana se il grande Stato nazionale ereditato dal Risorgimento  era stato distrutto, vittima delle sue interne fragilità ?

In realtà bisogna riconoscere che la Resistenza italiana, in quanto guerra di liberazione nazionale,  si è battuta per ricostruire una identità attorno al concetto di patria, che indica una comunità istituzionale,  piuttosto che a quello di nazione, che indica una comunità culturale e storica, laddove non proprio una comunità legata al sangue e alla terra, quella comunità che aveva fornito la miscela incendiaria dei nazionalismi, facilmente collegabili all’idea prevaricatrice di missione, se non di superiorità che tendiamo ad attribuire alla cultura in cui siamo nati.

Ha così precisato Claudio Pavone “E’ stato giustamente osservato che, nella Resistenza italiana, l’idea della patria è meno elementare , meno fisica di quel che è accaduto fuori d’ Italia. Ciò era dovuto proprio alla difficoltà di ricostruire un concetto univoco di patria, capace di restituire alla nazione un volto umano. Soprattutto nelle prime settimane le impennate di orgoglio individuale , volte a salvaguardia della propria identità personale, si fondono con la riaffermazione dell’identità nazionale. Il senso dell’infelicità individuale e collettiva già altre volte nella storia era stato visto, illuministicamente, come generatore di patriottismo “ ( Claudio Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino, , 2015, p. 170).

Lo stesso  Pavone per fornire un esempio della ricostruzione/riscoperta della PATRIA cita la testimonianza di un Diario di un partigiano combattente, Pietro Chiodi che scriveva  in data 27 luglio 1943:

“Non mi ero mai accorto  che il Liceo fosse così splendente e pieno di luce.  Sento che è una piccola parte della mia Patria.  Quella parte in cui io sono chiamato  a compiere il mio dovere verso di lei.  E’ la prima volta  che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio , di affidato, in parte, anche a me, alla mia intelligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sacrificio” ( Claudio Pavone, Una guerra civile, cit.,  p  171).

E’ la PATRIA, non la NAZIONE, ciò  che legittima il DOVERE, la patria di cui ci si sente parte, il luogo in cui viviamo ed in cui costruiamo tutti  insieme un futuro, che è affidato agli  adempimenti di ognuno di noi.

La Resistenza piuttosto che una identità nazionale aveva dunque ricostruito una identità patriottica. L’idea di “Patria”, una volta defascistizzata,  aveva restituito un volto umano alla nazione italiana,  un volto che la faceva apparire nuova in quanto vera  e ormai  lontanissima dalla patria fascista che aveva gettato  l’ Italia nell’avventura senza ritorno della guerra nazifascista. Quasi la “patria vera” che Dora Markus nella nota poesia di Eugenio Montale, pubblicata nel 1939, addita al poeta, una patria sognata, ancora indistinguibile e invisibile perché sopraffatta dalla retorica vuota del fascismo, da cui solo il disastro militare l’avrebbe liberata.  “Con un segno/ della mano additavi all’altra sponda/invisibile la tua patria vera”.

Una PATRIA non è una NAZIONE anche se i due termini si sovrappongono nel linguaggio comune e talvolta anche in quello degli storici. La NAZIONE è la comunità culturale di cui facciamo parte per nascita ed è data dalla condivisione di elementi oggettivi, tendenzialmente esclusivi,  che si fonda sulla diversità e sulle peculiarità locali.

La PATRIA è la comunità istituzionale di cui facciamo parte  a prescindere da lingua,  religione o memoria storica  ed è data dalla condivisione di senso, quindi dalla condivisione dei doveri non solo dei diritti, come succede in una comunità familiare. E’ quindi una comunità  naturalmente inclusiva, come la famiglia, quindi aperta anche all’esterno ed anche ad altre comunità.

Può quindi esistere una PATRIA NAZIONALE che è complementare ad una PATRIA EUROPEA, come la Giovine Italia, la Giovine Germania e la Giovine, Polonia potevano coesistere, nel pensiero di Mazzini, con la  Giovane Europa.

La NAZIONE è la comunità culturale in cui si è nati, accomunata solitamente da unità linguistica, storica, religiosa, sentimentale, la comunità che ci distingue dagli altri. E’ la comunità che siamo portati a volere grande o forte nel mondo. La PATRIA invece è come un anziano genitore che si ama anche se è debole e fragile, anche se è “bella e perduta” ed è la comunità cui apparteniamo più intimamente, quella che ci può chiedere i sacrifici più alti.

La Costituzione italiana è chiarissima in merito riservando un rango speciale e distinto ad esse. La difesa della PATRIA è “sacro dovere del cittadino” ( art.52),  non quella della NAZIONE.

La natura “aperta” della PATRIA si trasmette tuttavia, nel testo costituzionale, in certo qual modo,  anche alla NAZIONE, che si apre verso l’alto consentendo  le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia tra le Nazioni. Come recita l’art. 11 della Costituzione. In altri termini anche la NAZIONE finisce con l’essere una comunità aperta, che legittima tale apertura, laddove si opera in vista della pace e della giustizia a tutti i livelli. E’  questo e preciserei SOLO questo  però che legittima le “uniche” limitazioni di sovranità possibili per le costruzioni istituzionali internazionali a partire dalla costruzione europea.

E’ questa rinnovata idea di patria che fa nascere l’ Europa politica e che rende assurdo ogni nazionalismo. Nessun “nazionalismo” può essere compatibile con questa visione costituzionale, né quello della piccola Italia, né quello più grande, neppure un improbabile e ridicolo “ nazionalismo dell’ Occidente”, “dell’ Europa” o persino dell’ “europeismo”. La Resistenza ha rotto definitivamente con tutti i nazionalismi. E questo ha aperto  una nuova strada  alla costruzione della pace. (Segue)

Umberto Baldocchi

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