Questo articolo segue l’intervento di ieri “Make Europe great again” (CLICCA QUI)

Omnia tempus habent

C’ è un tempo per tutto. O meglio, tutto ha la sua stagione, ogni evento il suo tempo sotto il cielo. Come dice Qohelet. Lo sappiamo c’è il tempo di nascere, il tempo di morire, il tempo di abbracciarsi, il tempo di allontanarsi, il tempo di strappare, il tempo di cucire, il tempo della guerra e il tempo della pace.

I tempi sono a volte incompatibili tra loro, è il caso delle coppie antitetiche di Qohelet 3,  ma a volte sono sovrapponibili o compatibili tra loro.

Oggi credo che il tempo di abbracciare, il tempo di unire, cui tanti collegano la manifestazione europea del 15 marzo ( salvare l’ Europa come unità e come idea guida) sia contemporaneamente anche il tempo di cambiare.  Del resto proprio  la storia italiana ci ha insegnato che questi due tempi si possono sovrapporre e combinare fruttuosamente anche se non è agevole farlo con coerenza. L’unificazione italiana del 1861 è stata un punto di approdo di un lunghissimo e tortuoso cambiamento iniziato all’inizio del secolo, dall’epoca napoleonica, cui datiamo la nostra bandiera (1797) ed ebbe a base quel fenomeno culturale e politico ricco e complesso  che giustamente chiamavamo “risorgimento”.

La Piazza per l’ Europa del 15 marzo è nata da questa preoccupazione, quella di non perdere l’idea e la prospettiva dell’ Europa unita. Contro i rischi crescenti ed anche  le sentenze di politologi, esperti di geopolitica, pensatori di varia umanità.  Il punto centrale è però che questa idea unitaria per vivere deve cambiare quella Europa che c’è, ovvero l’ Unione Europea,  laddove essa è stata insufficiente, o ha fallito.

I motivi per cambiare, ovvero la crisi dell’ UE

L’ Europa che ha fallito è l’ UE che ha prodotto le “leggi dei numeri”, regole irragionevoli ( simili a quelle degli stalinistici piani quinquennali)  ,  per guidare l’ economia e la società, i famosi matematici vincoli di bilancio inseriti poi nel Patto di stabilità e crescita, regole  che non reggevano alla realtà, che si applicavano sempre ai più deboli ( vedi Grecia) ma si derogavano spesso nei confronti degli Stati più forti, che potevano godere della enorme ed arbitraria discrezionalità delle istituzioni di vertice.  Basta ricordare la decisione con cui nel 2003 il Consiglio prevalse sulla Commissione per esentare Francia e Germania dalle procedure per lo sforamento del vincolo di deficit del 3%.  E basta considerare ora quanto si siano rivelati irrealistici  quei vincoli matematici ( miranti al rigore di Von Hayek, non alla prudenza di Einaudi ) , scioltisi oggi come la neve al sole,  di fronte alla prospettiva di una crescita inusitata delle spese militari, e già prima derogati con gli investimenti Next generation EU post Covid. Con un finale grottesco, quei vincoli sono infatti stati testardamente riattivati nel 2024 da un Consiglio dell’ Unione che ha addirittura peggiorato l’impostazione che caratterizzava la proposta della Commissione, peraltro ad opera proprio di quei governi, come quello tedesco, che, poco dopo,  nel 2025 improvvisamente hanno poi cambiato idea sul “rigore”, non appena la recessione  li ha toccati direttamente.

L’ Europa che ha fallito è l’ UE laddove essa ha realizzato una vera e propria “società dell’ astrazione” ( l’opposto esatto  di ciò che si chiama “società della cura”) una società  in cui le categorie concrete di territorio e diritto sono sostituite da quelle di  spazio e tecnica, dove opera quella “integrazione negativa”- realizzata per via giudiziaria con le sentenze della Corte di Giustizia Europea-  che mira non ad armonizzare le normative ma a rendere “omogenea” l’ Europa per via di una deregulation  che, oggi lo vediamo, indebolisce e precarizza dovunque crescita e sviluppo . E’ l’ Europa che affida lo sviluppo alla mano invisibile ( o meglio incontrollabile) della economia e della finanza, che delocalizza industrie e lavoro, stimola il land grabbing, riconfigura domanda ed offerta, operando in favore di un astratto “consumatore”, ma non dispone istituzionalmente  di alcun strumento euro-unitario di politica economica con cui  intervenire sulle condizioni sociali e di lavoro.

L’ Europa che ha fallito è l’ UE che fa propria – invece di contrastarla in modo realistico- la nuova tendenza generalizzata al riarmo ( Rearm Europe) una tendenza che pare oggi legata, non solo alla guerra di Ucraina, ma al dilagare  inarrestabile di quella  ” weaponisation”, cioè della potenziale postura bellica che inevitabilmente assumerebbe  ogni attività economica o tecnologica umana, ciò che è stato teorizzato proprio alla vigilia del conflitto ucraino-russo da Nicholas Mulder in: The economic weapon. The rise of sanctions as a tool of modern war New Haven, 2022.

Si tratta di un termine presente nei documenti UE. Ed è la funzione realizzatasi nella “guerra delle sanzioni”, sviluppatasi dopo l’invasione russa dell’ Ucraina, ma potenzialmente estendibile ad ogni ambito ed area geografica. E’ infatti il prodotto, più che di una scelta strategica, di una visione ideologico-tecnologica del mondo, in cui divengono centrali competition, diffidence and glory, competitività, diffidenza e volontà di dominio, le fondamenta hobbesiane dello “stato di guerra”. Una visione per cui è naturale che sempre e dovunque possano nascere un Hitler o uno Stalin. Oggi il rischio si chiama Putin, poi magari assumerà altre identità, ma siamo certi che il rischio resterà. La nostra è infatti, ex definizione, una “società del rischio” e del rischio crescente. E’ una nuova visione- questa che si propone di far proprio il rischio, non di contrastarlo- mi pare,  con gli strumenti della  teoria e storia delle relazioni internazionali. , propria di “responsabili politici” che pretendono di gestire le relazioni internazionali senza aver mai letto una riga di Pierre Renouvin o Jean Baptiste Duroselle, di cui magari ignorano pure i nomi. Una visione grottesca, se non avesse conseguenze tragiche.    I

L’ Europa che è fuori strada è quella che non riesce a costruire una politica estera comune e una difesa comune,  come si tentò di fare nei primi anni cinquanta del XX secolo con la CED ( Comunità Europea di difesa), che prevedeva se non un Ministro europeo della Difesa, almeno un Consiglio dei Ministri che determinasse la politica della Comunità pronunciandosi all’unanimità sulle questioni centrali e che doveva completarsi con una ben definita struttura politica federale denominata CPE, Comunità politica europea, che fu proposta da Alcide De Gasperi che fece inserire l’art. 38 nel Trattato istitutivo della CED per dar vita all’ Assemblea che doveva elaborarla.

Tutt’altra cosa è oggi lo stanziamento di 800 miliardi per il riarmo europeo, senza passare da alcuna discussione nel Parlamento europeo, esattamente come faceva un tempo il monarca assoluto, quando era in cerca di finanziamenti per una guerra o per altre politiche, cosa che fece  Carlo II ad esempio nell’ Inghilterra del XVII secolo. Un sovrano che purtroppo non avendo con sé l’art. 122 del TFUE, che legittimava l’anomalo stanziamento extra-parlamentare con l’”emergenza” ( non c’erano “emergenze” all’epoca, chissà perché  ), non si poté salvare dal terribile rigore e dalla severità del suo Parlamento.

Se, d’altronde, il finanziamento degli eserciti potesse essere autorizzato da un potere amministrativo o economico, comunque non accountable  come quello di un Parlamento rappresentativo, come si potrebbe evitare il rischio che la economia bellica , divenuta parte centrale della economia di un paese ( magari il sostituto della fallita automotive) , possa esser considerata una realtà permanente, allo stato potenziale o attuale?  In conseguenza anche la guerra diverrebbe un fenomeno ibrido, ubiquitario e permanente, la guerra che si fa con le armi, ma anche coi telefonini e i sistemi satellitari di controllo,  una guerra  perpetua-cge magari non sempre uccidh fisicamente-   con rari intervalli di “pace”. Non stupisce che anche la guerra vera stia trovando riabilitatori e sostenitori entusiasti come Antonio Scurati, che ricordando Maratona il Piave, ha sostenuto che “la guerra dei nostri antenati europei non è stata solo il dominio della forza, è stato anche il luogo di genesi del senso”. O stia trovando difensori un po’ più timidi, quelli che “nascono” a sinistra, come quelli che continuano a parlare di guerra come “male” ma un “male necessario”.

L’ Europa di cui non possiamo essere orgogliosi è quella della  constitutionalisation of the economic liberties , sviluppatasi dopo Maastricht, che pare diventato il principio cardine dell’ordinamento europeo, in nome di un total market thinking. Si è costituito un diritto puramente servente rispetto ad obiettivi funzionali predeterminati- fondamentalmente le quattro libertà di movimento di merci, capitali, servizi e persone-, e quindi un diritto inteso non più come tecnica aperta di regolazione dei conflitti e di bilanciamento dei valori. E’ un diritto che, come avviene persino nella Carta di Nizza, finisce per costruire “un soggetto astorico e asociale soggetto virtuale […] una realtà insulare come l’individuo auto-referenziale ”  e non “un soggetto inserito in un contesto culturale, sociale, economico  e pertanto fornito di carnalità storica” ( Paolo Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, 2017, p. XIV). E che realizza una liberalizzazione no borders non compensata da integrazione positive derivanti da politiche macroeconomiche attivate su scala europea.   E’ il mondo che rifiuta la verticalità dell’ordine politico. E che nei casi estremi – il caso di Trump- ripudia persino il diritto.

Non possiamo infine essere orgogliosi di avere un Parlamento europeo a poteri ridotti,  quasi una assemblea di consulenza  per la Commissione, lontano culturalmente dai suoi elettori e vicino alle pressioni non disinteressate delle migliaia di lobbisti “accampati” a Bruxelles. Molti “europeisti” lo ignorano ancora,  ma il Parlamento europeo  non ha un vero ed effettivo potere di iniziativa legislativa ( quale altro parlamento al mondo ha questa limitazione?) un potere tanto inutilmente sollecitato dal presidente David Sassoli. Il Parlamento europeo certo esercita funzioni di co-legislatore insieme al Consiglio, ma nella  cosiddetta procedura legislativa speciale ha, in un certo numero di casi, una funzione puramente consultiva, mentre nella procedura legislativa ordinaria ha sì diritto di approvazione, ma non di libera discussione in plenaria, laddove si procede ad utilizzare il Trilogo– cioè la contrattazione riservata tra rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione, una pratica che contraddice platealmente i principi di partecipazione e trasparenza, una pratica peraltro criticata dal Mediatore europeo. Infine il Parlamento europeo non ha neppure la competenza per disporre liberamente della propria procedura elettorale- attualmente regolata dall’ Atto di Bruxelles entrato in vigore il 1 luglio 1978 e dalla Decisione 2002/772/CE che ha introdotto principio proporzionale e incompatibilità di mandato tra parlamentare europeo e nazionale. Per introdurre modifiche nella procedura elettorale, per armonizzare efficacemente le procedure elettorali dei ventisette Stati , magari anche per realizzare una circoscrizione elettorale transnazionale per favorire la nascita di vere liste e veri partiti transnazionali , richiesta più volte avanzata  anche dai cittadini europei consultati nella Conferenza sul futuro dell’ Europa, il Parlamento deve infatti sottoporre la propria decisione all’approvazione unanime del Consiglio, cioè dei rappresentanti di tutti i governi europei.

I motivi per unire, ovvero l’orgoglio europeista

C’è poi una Europa, diciamolo a voce alta,  di cui non possiamo che essere orgogliosi, una Europa che forse ci potrebbe salvare dall’ Apocalisse, ma una Europa che purtroppo pochi conoscono e che pochissimi difendono sul serio.

E’ prima di tutto l’ Europa che ha saputo, andando oltre guerre e conflitti, aprire la strada ai diritti attraverso un complicato processo plurisecolare di riflessioni teologiche, filosofiche e politiche culminato nell’ Illuminismo e nella codificazione dei diritti, dal diritto alla dignità, a quelli all’ eguaglianza, alla libertà di coscienza, alla proprietà nelXVIII secolo.

E’ l’ Europa che ha promosso, dall’ Umanesimo in poi,  la modernità ed ha avviato un dinamismo culturale, sociale ed economico straordinario, alle origini della propria espansione mondiale, ma che poi ha anche saputo dar regole,  limiti e disciplinamento alla potenza creata dall’uomo stesso, per limitarne gli abusi e per disciplinare quella potenza. E’ il caso di un potere politico che, nella modernità, ampliava enormemente il suo potere di controllo, ma riusciva poi a darsi dei limiti, da un lato costruendo meccanismi di autolimitazione (il potere che limita il potere ) quei meccanismi poi tradotti nei principi e nelle regole diffuse dalle rivoluzioni di fine XVIII secolo, a partire da quella americana, e che poi avrebbero posto le basi delle moderne Costituzioni, un modo inedito di concepire la costruzione del potere politico, sottraendolo al caso, alla necessità e alle emergenze e subordinandola al potere equilibrante della ragionevolezza umana.

E’ l’ Europa che ha sviluppato la critica della potenza non solo in direzione dei  meccanismi funzionali a garantire i limiti, ma anche in direzione di una ridefinizione della natura del potere politico, come  potere non più volto al dominio, ma finalizzato al servizio. E’ il concetto riformulato da un grande padre  dell’ Europa, da  Erasmo da Rotterdam,  che, nelle Istituzioni del principe cristiano ( 1516) contrappone ai termini di dominium,  regnum, maiestas, potentia, quelli di   administratio,  beneficenti,a custodia. ( Tre anni dopo la stesura del Principe di Machiavelli che però non era un trattato sulla natura del potere ma sul problema della transizione e della fondazione dello Stato)   Una concezione, quest’ultima di Erasmo, che potrebbe sembrare astratta o naive,  se non vi fossero stati uomini che hanno testimoniato anche col sacrificio della propria vita la esistenza indiscutibile di questa dimensione, per cui il potere non è un piacere ( che logora chi non ce l’ ha) ma una croce che l’uomo si  deve caricare.   Da Tommaso Moro, per venire ai tempi più recenti a Dag Hammarskjold ad Aldo Moro solo per citare politici di prima grandezza.   

Pensiamo quanto oggi nel XXI secolo sarebbe essenziale  il disciplinamento del potere di governo, di fronte al nichilismo delle autocrazie e delle oligarchie,   ma anche e soprattutto di fronte all’estensione del potere più grande,  quello di fare la guerra senza limitazioni giuridiche.

Cosa altro è stata la fondazione della CECA che ha avviato la costruzione europea nel 1951 se non una intelligente modalità di organizzare l’economia per costruire la pace e la “pace mondiale”, limitando il potere dei singoli stati di monopolizzare le risorse energetiche strategiche, che dovevano esser messe in comune entro una organizzazione aperta, e quindi per impedire loro di “competere” sottraendo o occupando quote di mercato altrui , ma conciliando pace, concorrenza, progresso economico e sociale e libertà civili?

Cosa altro è stato l’Atto finale di Helsinki del 1975 se non un altro aspetto di questo disciplinamento del potere che si esprimeva non  coi pii desideri di un ingenuo “pacifismo”, ma con impegni solenni che puntavano  a realizzare in Europa una sicurezza collettiva che riusciva contemporaneamente a “sostituire  con una feconda cooperazione le diffidenze e le rivalità  fra i popoli dell’area, fattori che furono all’origine di due guerre mondiali”? ( Aldo Moro, Discorso alla XXI sessione dell’ Assemblea Generale dell’ ONU, 6 ottobre 1971) . Questa combinazione di sicurezza e cooperazione che sostituiva la logica della diffidenza reciproca con il capitale sociale della fiducia reciproca nelle relazioni internazionali  non era soltanto il risultato  di una condizione favorevole creata dall’ equilibrio nucleare, ma soprattutto l’opera di classi politiche che sapevano operare con una conoscenza equilibrata delle relazioni internazionali e potevano accettare il compromesso ( ed i “cedimenti parziali e opportuni”) persino coi poteri dispotici.  A chi faceva osservare che grazie all’ Atto di Helsinki Breznev- il Putin dell’epoca e l’ invasore della Cecoslovacchia-   aveva riaffermato  la sovranità limitata  sui suoi alleati, oltre che l’intangibilità dei confini della guerra fredda, Moro poteva serenamente rispondere : “Breznev passerà e questi semi che noi abbiamo posto  daranno il loro frutto”. ( G. Olmi, Aldo Moro alla Conferenza di Helsinki, pp. 11-12)

Dal tempo della guerra al tempo della pace, ovvero l’invenzione europea della pace

La guerra è stata una realtà presente nella storia umana sin dai primordi. Non a caso polemos, la guerra, è per Eraclito il padre di tutte le cose. La pace è arrivata dopo, è la conseguenza del patto con cui si riannodano, dopo il conflitto, i rapporti tra gli uomini. Ma dobbiamo all’ Europa il moderno concetto di pace sconosciuto al mondo antico ed elaborato dopo un lunghissimo processo plurisecolare e tragiche vicende di violenze e sopraffazioni.

Per gli antichi, come per i nuovi corifei della guerra permanente, la pace si definisce solo in negativo.  Essa è l’assenza di guerra, è una eccezione, una condizione felice e fortunata che si realizzava ogni tanto, nel mondo antico perché ogni quattro anni si interrompevano le guerre (Olimpiadi) oppure perché qualche governante particolarmente capace sapeva dare stabilità all’assenza di conflitti armati, come nella pax augustea. Nel medioevo poi  si dichiarava la pace, non la guerra, perché la guerra era una condizione permanente conseguenza inevitabile dell’assoluta insicurezza dei rapporti sociali.

Nella modernità europea la pace si è configurata invece  come diritto e finalità essenziale dell’agire politico. Prima la pace interna degli Stati, conseguenza del diritto alla sicurezza della persona , la legge di ragione che proibisce di fare ciò che possa attentare alla vita umana , proibisce ogni guerra civile, il diritto assicurato dal Leviathan di Thomas Hobbes  che riesce a imbrigliare la natura belluina  dell’ essere umano e por fine all’insicurezza dello stato di natura.

La pace diviene poi ,a partire dal XVIII secolo e da Immanuel Kant, il diritto alla sicurezza  delle relazioni internazionali che  è realizzabile attraverso una  società civile che faccia valere universalmente diritto e ragione. La pace tra i popoli non nasce più da un “pactum” che ci riporta alla radice etimologica della parola,  cioè non nasce da un accordo, ma da un “foedus”  cioè da una sorta di lega  “ che non ha per scopo  di far acquistare qualche potenza ad uno Stato, ma ha solo di mira  la conservazione  e la sicurezza della  libertà di uno Stato per sé  e al tempo stesso per gli altri stati confederati, senza che questo  debbano con ciò sottomettersi a leggi pubbliche e ad una coazione reciproca. Si può pensare l’attuabilità di  questa idea federalistica che si deve gradualmente estendere  a tutti gli Stati e portare alla pace perpetua” ( Immanuel Kant  Per la pace perpetua, 1795). Qui, insieme al federalismo  nasce l’idea moderna di pace intesa positivamente come un ordine di relazioni tra Stati che porterà alle prime concrete progettazioni di una Europa unita già alla fine della grande guerra ( Luigi Einaudi e Giovanni Agnelli)  e poi alla effettiva costruzione europea nel 1950 ed, ancor prima, alla nascita delle grandi organizzazioni internazionali come l’ ONU.

E’ questa l’idea nuova di pace nata in  Europa e realizzatasi nel progetto di costruzione europea. Ad essa peraltro si deve un cinquantennio di pace europea dopo il secondo conflitto mondiale.  Una pace dovuta non tanto e non soltanto  alla deterrenza ed all’equilibrio nucleare, alla cosiddetta “pax americana”, una pace senza intelligenza e senza volontà, un condizione liquida, precaria sospesa  al timore vicendevole  ed al reciproco disinganno che non comporta vincoli  e che non rimuove le ostilità.  Come la “pace”  che caratterizzò l’ Europa tra il 1919 e il 1939. Era  una pace di tipo nuovo, un vero ordine di relazioni convergenti verso uno scopo comune. Che certo non eliminava gli strumenti di sicurezza e di difesa militare, ma mirava a ridurne la portata con iniziative bilaterali .

E’ questo l’ordine oggi rimesso in discussione dalla guerra ibrida e globale,  che colpisce direttamente e indirettamente, attraverso il sabotaggio delle infrastrutture civili ed energetiche,  ma soprattutto attraverso culture politiche e massmediatiche che separano e contrappongono popoli e persone, creano identità fasulle, promuovono l’odio e la diffidenza reciproca  e degradano i meccanismi della partecipazione democratica e della formazione delle classi dirigenti. L’ Europa che pure ha questi fondamenti di enorme valore è per questo sottoposta ad un drammatico “rischio esistenziale”. Ma la via d’uscita non può essere che un vero cambiamento che, con ragionevolezza ma con decisione, la riconduca alle origini e la faccia vivere nella mente e nel cuore dei cittadini per passare dal tempo della guerra al tempo della pace. Che deve essere costruito.

Umberto Baldocchi

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