Mentre la guerra infuria con le sue vittime e distruzioni in Ucraina e in Medio Oriente il brutale conflitto sembra lasciare il campo agli accordi imposti da Trump, il parlare di pace si fa più intenso, ma la chiarezza su natura, modalità e condizioni della pace non brilla nel discorso dei politici e tantomeno nell’opinione pubblica.

Ma proprio perché la pace è una esigenza così importante è opportuno spazzare via un po’ di confusione sulle parole. Tanto più se alle parole devono seguire i fatti. Le parole su cui soffermarsi sono pace, armistizio, tregua (o cessate il fuoco). A queste va aggiunta anche la parola capitolazione sull’uso della quale c’è un po’ più di “pudicizia”. Forse questa parola viene meno pronunciata perché troppo chiara è la sua componente di violenza per sventolarla
troppo esplicitamente (ma la sua dura realtà traspare quando si analizzino le azioni di certi attori della scena internazionale). Se intendiamo pace in un senso piuttosto generico come arresto di un conflitto tutte le parole citate possono rientrare in questo significato. In qualche modo sembrano una svolta rispetto alla violenza della guerra, ma le condizioni che esse implicano per le parti in causa sono ben diverse!

Cominciamo da Pace, ma dando alla parola un senso tecnico preciso e non quello generico. Pace suppone un accordo suggellato giuridicamente e che risolve in maniera accettata tra le parti e tendenzialmente permanente il contenzioso territoriale (o di altra natura) che le ha divise. Ne è un buon esempio il cosiddetto Accordo De Gasperi-Gruber del 1946 tra Italia e Austria sull’Alto Adige).

Si tratta, come è chiaro, di una soluzione molto esigente e che comporta rinunce maggiori o minori dalle parti ma al contempo è capace di grandi frutti. È esattamente l’opposto di Capitolazione che consiste invece nella sconfitta imposta attraverso la violenza da una parte sull’altra. In questo secondo caso le condizioni per la parte perdente dipendono interamente dal vincitore e dalla sua volontà di dominio o relativa magnanimità (un esempio di relativa magnanimità è stato quello della politica americana verso il Giappone dopo la fine della seconda guerra mondiale). Armistizio è una situazione concordata tra le parti che pone fine al conflitto in maniera stabile ma senza ratificare giuridicamente gli esiti territoriali (e non) di questo. In sostanza congela la guerra rimandando ad un futuro più o
meno lontano (quando saranno cambiate le condizioni sistemiche) la regolazione giuridica dei rapporti tra le parti in causa. La sua durata dipende da garanzie sufficientemente solide che impediscano la ripresa delle ostilità. Un classico esempio è l’armistizio che ha posto fine alla guerra di Corea e ha “eternizzato” la divisione tra le due parti del paese con la presenza di un notevole contingente americano a garanzia nella Corea del Sud e la “sorveglianza” cinese sulla Corea del Nord.

Tregua è una interruzione concordata e temporanea (per un numero limitato di giorni) delle ostilità con la finalità di preparare il terreno ad una soluzione più duratura e mettere alla prova la buona volontà e la fiducia reciproca delle parti. In assenza di passi in avanti verso un armistizio o una vera pace lascerà spazio al ritorno alle ostilità.

Se proviamo ad applicare queste categorie ai due grandi conflitti in corso – Ucraina e Gaza –
possiamo facilmente constatare che la soluzione Pace, che vorrebbe dire in un caso la restituzione da
parte della Russia dei territori occupati e il pieno riconoscimento dell’integrità e sovranità
dell’Ucraina e il ritorno della Russia in un ordine pacifico europeo, nell’altro caso il riconoscimento
da parte di Israele di uno stato palestinese capace di governare in un contesto in cui il terrorismo di
Hamas e simili gruppi viene reso inoffensivo, è al momento largamente fuori della portata. Sia la
Russia di Putin che Israele di Netaniahu oggi scommettono invece sulla Capitolazione
dell’avversario.

Le speranze e gli obiettivi concreti per chi vuole onestamente porre fine a questi conflitti devono quindi rivolgersi oggi alle due ipotesi intermedie: una Tregua come strumento preparatorio per arrivare ad un più stabile Armistizio e non come un semplice “prendere il fiato” prima di riprendere con più forza le ostilità. L’armistizio dovrebbe poi dare il tempo (probabilmente non breve) per cominciare a sanare le tremende ferite dei due conflitti, ridare speranza alle
popolazioni e cominciare a pensare e costruire le condizioni pattizie e istituzionali per avvicinarsi in
prospettiva a un assetto di pace che dia soddisfazione alle esigenze legittime delle parti in causa.

Un percorso del genere richiede però che la pressione per fermare chi punta alla capitolazione dell’avversario sia sviluppata con determinazione e che si predispongano garanzie forti per impedire che una raggiunta situazione armistiziale si sgretoli rapidamente.

Nel caso di Gaza e della Palestina il piano Trump sembra oggi avviare un percorso che da una tregua porti ad un armistizio. Se seguirà una vera pace (che non può non implicare una rinuncia di Israele alla umiliazione dell’Autorità Palestinese e il riconoscimento di una soggettività politica del popolo palestinese) è oggi ancora tutto da vedere. Nel caso dell’Ucraina siamo lontani anche da una tregua.

Nella sua incredibile caccia al Nobel per la pace potrebbe domani accendersi nella mente di Trump una rinnovata voglia di imporre una tregua anche in Ucraina? Forse è il caso che l’Unione Europea si assuma un più vivace ruolo di stimolo in questa direzione.

Maurizio Cotta

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