Basta la parola. Basta dire “partito” per suscitare fastidio, diffidenza, addirittura sospetto, se non un mezzo sorriso di sufficienza e di compatimento.
Il “partito” per molti continua ad essere una brutta cosa. Un ambiente da evitare per non compromettere la propria illibata coscienza in compromessi ambigui o maneggi indegni delle persone per bene. Uno spazio abitato da soggetti famelici di potere o, addirittura, grassatori. La sentina di ogni male da sacrificare, quale capro espiatorio, per riguadagnare l’innocenza.
Eppure chi bazzica dalle parti della politica, ci gira attorno, ma, sia pure con piglio sdegnoso, del partito non può fare sostanzialmente a meno. Ed, infatti, lo camuffa da “movimento”, lo propone come lobby, lo declina, ad esempio, velando un fastidiose accostamento, nei suoi supposti contrari – “spartito”; “più di un partito” – che, di fatto, negandolo, lo evocano. Senonché , “partito” significa “parte”, vuol dire “prendere posizione” ed oggi, a fronte delle sfide epocali che non possiamo aggirare, il non prendere posizione, quasi ci si potesse chiamar fuori dalla storia, è, ancor prima che politicamente, moralmente indecente.
Il partito, i partiti sono stati per decenni, pur tra mille ombre, la voce di chi non ha voce ed il tramite che ha consentito alle classi popolari di entrare da protagoniste nel discorso pubblico e nelle istituzioni, garantendo il progressivo allargamento delle basi democratiche dello Stato, costante preoccupazione e stella polare dell’azione politica di Aldo Moro.
Il partito, correttamente inteso, è una straordinaria comunità di pensiero e d’azione, nella quale – una delle poche o forse l’unica – il colto e l’incolto stanno assieme su un piede di pari dignità perché ad alimentare la loro militanza politica non è il censo o la cultura, ma una passione civile comune che guarda alle cose del mondo attraverso il filtro non di una teorizzazione intellettualistica o astratta, ma, anzitutto, passata al vaglio del proprio vissuto quotidiano. Non a caso, Aldo Moro ha sempre avuto a cuore l’unità della Democrazia Cristiana ed insisteva a raccomandare e a ripetere come questa fosse la condizione necessaria per affrontare, in quelli che furono prematuramente gli ultimi anni della sua vita, il momento del “sorpasso” e quella stagione di piombo che culmino’ nel suo sacrificio.
Il partito deve saper cogliere lo spirito del tempo ed intuire una via, orientata ad offrire una speranza, segnalare una prospettiva che dia sapore alla vita, incamminata verso l’incremento di quel “valore umano” che, ancora una volta, ricorre nelle parole di Aldo Moro.
Soprattutto nel tempo della complessità deve saper dipanare gli intrecci, le dipendenze incrociate tra un processo e l’altro, isolarli l’uno dall’altro e poi ricomporli in una sequenza ordinata, sciogliendo sovrapposizioni ed embricature che nascondono o velano i veri snodi da affrontare. Il “discernimento” è un momento essenziale della sua azione.
Il partito, ovviamente, non va confuso con la “fazione”. E’ sì il portatore di interessi particolari che vogliono prevalere su altri, eppure sa che nessuno di questi può essere affermato se non nel quadro di un interesse generale.
Cosicché, il partito può essere tale – e non fazione – solo se sta dentro il riferimento ad un destino condiviso.
Anche oggi abbiamo bisogno dei partiti, ovviamente secondo forme nuove, pertinenti all’attuale fase storica, differenti da quelle che abbiamo conosciuto.
Partiti, sì di iscritti, sia pure pochi – minoranze attive, se confrontate ai grandi numeri dei tempi della cosiddetta “Prima repubblica” – ma soprattutto di relazioni strutturate con tanti ambienti che pur non contemplano la politica come loro immediato compito. Non si può sfuggire, infine, all’urgenza di affrontare tempi, modalità e forme di applicazione dell’ art. 49 della Costituzione, che, non a caso, espressamente li prevede, affinché ognuno possa concorrere “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Domenico Galbiati