La riforma della P. A. è una delle più attese, da qualche lustro, auspicata da giuristi insigni, dai dirigenti della “vecchia guardia” assunti per concorso pubblico e arrivati alla Prima fascia per gradi ed anche per merito, ma ora ridotta ad argomento eventuale e secondario rispetto all’uso delle tecnologie e della digitalizzazione.

E invece ci viene annunciata una boutade, definita mediaticamente “patto per il pubblico impiego” che fa un po’ di rumore nel silenzio quotidiano dello stress da corona-virus, grazie all’ausilio di operatori dell’informazione che si limitano banalmente a registrare il messaggio della comunicazione istituzionale del Governo, che vorrebbe far tornare indietro le lancette di questa, profonda crisi al tempo della concertazione presieduta e condotta positivamente in porto dal compianto Presidente Carlo A. Ciampi. Questa sorta di “mini-riforma” annunciata in pompa magna dal “mini-ministro” verrà certamente recepita dal Parlamento, in una seduta piatta e amorfa, come la panacea di tutti i mali del nostro sistema : falso storico e politico di prim’ordine! Del resto, va ridimensionato subito il peso e l’impatto che avrà in effetti questo, repentino accordo governo/sindacati, i quali avevano ben altro peso fino agli anni ’90 e che attualmente si accontentano facilmente della promessa di nuove assunzioni, sapendo che toccherà loro una fettina della “torta”, oltre all’aumento stipendiale, superiore alla media contrattuale di categoria.

Anche in un periodo di crisi grave e seria – per riprendere il pensiero del grande E. Flaiano – il problema della riforma amministrativa viene, almeno per il momento ignorato, come ha fatto la politica finora rispetto a quella lezione del Consiglio di Stato, organo consultivo del Governo – ricordiamolo – e comunque non viene affrontato con la dovuta serietà e approccio multi-disciplinare, semmai senza fretta ma con il metodo e le persone giuste, dato che mi risulta essercene in abbondanza nel Paese che per tradizione è la culla del diritto.

Facciamo ora un passo indietro, fino al 1992. Chi come me si occupava anche dei problemi dell’apparato della P.A. non può dimenticare l’autorevolezza e la profondità di pensiero espresso dal Consiglio di Stato dell’epoca (composto da fini, illuminati giureconsulti tra cui Alberto de Roberto), che formulò un parere assolutamente contrario alla privatizzazione del rapporto di lavoro del dirigente pubblico, folle discrasia che vorrebbe porre sul medesimo piano contrattuale il potere pubblico di una P.A. e quello di un qualsiasi dipendente pubblico, chiamato a svolgere funzioni dirigenziali! Le motivazioni, ampie e documentate, nonché calpestate e cadute nell’oblio generale, sono tuttora valide e sacrosante, checché ne dicano Bassanini, primo firmatario, e Brunetta, secondo estensore della famigerata riforma; questa introduceva con un secondo colpo di genio … la fantomatica separazione della direzione politica in mano all’esecutivo dalla gestione amministrativa, spettante in via esclusiva (?!) alla dirigenza.

Piuttosto, ciò che è stato ignobilmente separato è il riconoscimento pubblico della figura del funzionario dello Stato, come disciplinato in via generale dalla norma, chiara e sintetica dell’art. 28 della Costituzione, provocando una netta divisione all’interno delle carriere statali tra quelle prefettizie, diplomatica e militare che hanno conservato a pieno titolo il proprio status e conseguenti prerogative, rispetto alla “massa” dei dirigenti ministeriali, regionali, ecc. che hanno perso pure la propria dignità di “civil servant” ed il relativo riconoscimento dell’opinione pubblica.

Il principio della separazione, ottima intuizione in altre nazioni (ma non eravamo noi quelli che si facevano imitare?), forse soltanto apparentemente si poteva dimostrare utile, ma in realtà si è dimostrata infelice e  non attuata sotto il profilo pragmatico a causa del prepotere politico: di giorno in giorno abbiamo assistito, sudditi inermi, all’occupazione anche selvaggia dei posti di direzione apicale (capo dipartimento e segretario generale e regionale), di direzione di uffici di livello generale e di consigliere dell’autorità politica, con danni enormi e irreparabili. Vedasi nel campo sanitario le nomine dei commissari o dei direttori generali delle ASL, assoldati dai partiti, o le inefficiente di certe Protezioni civili regionali che non sono mai state al passo con il sistema nazionale di protezione civile.

E così la comunità nazionale si è consolidata, amministrativamente, su una serie di debolezze e contraddizioni, avvalendosi altresì della compiacenza del c.d. sindacato “giallo” o filo-governativo, non che del benestare di non pochi colleghi, sensibili al potere precostituito (“yesman”) o al richiamo delle associazioni segrete e lobbistiche, in assenza, pressoché totale (si salvano sporadici interventi del prof. Cassese, dei giornalisti Rizzo e Stella) di politici competenti e davvero dotati di un alto senso di responsabilità e perciò dello Stato.

L’ultima spiaggia potrebbe essere rappresentata, magari, da un messaggio del Capo dello Stato alle Camere, affinché si apra finalmente un dibattito degno dell’importanza dei temi su esposti, con particolare attenzione all’eventuale ritorno alle carriere (direttiva, di concetto, esecutiva ed ausiliaria), com’è provato che si confermano tuttora valide e decisamente funzionanti ove sono sopravvissute, appunto negli ordinamenti degli organi costituzionali (Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Segretariato generale della Presidenza della Repubblica …).

Se poi destinare un discreto pacco di miliardi alle assunzioni di personale, specialmente preparato in informatica e discipline economiche, sia finalizzato in particolar modo a svecchiare (non è affatto dimostrato che tale operazione assicurerà un salto di qualità), e nel contempo sia motivo di affermare che si sta rigenerando e rilanciando il sistema amministrativo, allora per dirla alla Troisi: non ci resta che piangere …

Si abbia il coraggio di ritornare, piuttosto, alle nomine dei dirigenti generali in sede di Consiglio dei ministri, sotto la responsabilità del ministro competente, dopo che la proposta abbia superato il vaglio tecnico-amministrativo del “Consiglio superiore della P.A.” da reintrodurre (c’era il consiglio superiore della funzione pubblica nella “prima Repubblica”) quale organismo terzo e indipendente dal potere esecutivo attraverso la composizione di nomina parlamentare. E analogamente si potrà adottare siffatta procedura di garanzia nelle organizzazioni regionali, locali e degli enti pubblici in genere.

Se, infine, si pensa alla formazione del personale, puntando semplicemente sul numero dei dipendenti da interessare o sull’ammontare delle ore medie della didattica, senza preoccuparsi di restituire valenza centrale alle scuole della P. A., ristrutturandole e rilanciandole senza alcuna influenza politica dell’apparato di governo, bensì avvalendosi di professionisti veri del settore formativo e docenti accademici, allora significa che l’insegnamento anzi il “testamento” politico-istituzionale lasciatoci dal prof. Massimo Severo Giannini sono lettera morta, in quanto totalmente inascoltati e vilipesi da un approccio metodologico da definire superficiale e stupido, perché inutile rispetto agli impegni presi verso l’UE, specialmente e tanto più se sarà questo il risultato del programma di “governo dei migliori”!

Michele Marino

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