La stampa riferisce indiscrezioni – anzi, qualcosa di più – su quanto bolle in pentola nella maggioranza di governo, a proposito di una nuova legge elettorale, da scodellare entro il prossimo mese di giugno. In tempo utile per blindare meglio il sistema, in vista delle prossime elezioni politiche.
Senza escludere l’azzardo, con un doppio “premio di maggioranza”, in modo da mettere in cascina da subito anche il Quirinale. Nessun accenno a quella “proporzionalità” del sistema elettorale, indispensabile per garantire che tutte le voci, gli indirizzi politici e culturali, le domande sociali, le istanze ed i legittimi interessi delle categorie, delle professioni, della generalità dei corpi intermedi possano trovare la strada di una libera espressione parlamentare. Premessa, peraltro, necessaria per tentare di riportare alle urne i troppi italiani che si sono stancati del gioco a somma zero, che immancabilmente si arena nella reciproca interdizione tra destra e sinistra.
La legge che, pare, verrebbe proposta non ha alcuna ambizione in proposito. Sta tutta nel solco del pluridecennale “maggioritario” che, in nome di una presunta maggior governabilità, avvilisce la rappresentanza e soffoca la centralità del Parlamento con gli esiti che conosciamo. Non è difficile immaginare che una tale impostazione, salvo qualche diatriba di facciata e qualche aggiustamento tecnico, troverà il sostanziale e complice consenso di una sinistra che, in quanto a blindatura del sistema elettorale, se ne intende – come ha ampiamente dimostrato – e, soprattutto, ci tiene … eccome se ci tiene.
Eppure, si deve essere ciechi per non vedere come il sistema maggioritario e la polarizzazione che reca con sé non è in grado di “contenere”, nel senso di tenere assieme, il pluralismo del nostro Paese. Se mai lo “contiene” nel senso di comprimerlo, limitarlo, avvilirlo. Può darsi che funzioni altrove, senonché ogni paese ha una storia, una cultura, una composizione sociale, una sensibilità differente da ogni altro. E tutto questo non può essere forzosamente compresso dentro un corsetto rigido e preformato, commisurato ad ipotesi di scuola politologica più o meno pertinenti e non, piuttosto, disegnato in ragione degli autentici e vivi profili di un mondo che non è quello che si suppone, né quello che, per ragioni di comodo, si vorrebbe, ma, piuttosto, quello che effettivamente è.
Si finisce, inevitabilmente, per cadere, più o meno consapevolmente, nei propri “tic” ideologici, di fatto alterando la fisionomia dei processi che pur si dovrebbero governare. Il nostro Paese non è l’Italietta che può essere umiliata nella grigia retorica della “nazione” cara a Giorgia Meloni. L’Italia è storicamente un paese a vocazione universale ed ha disseminato bellezza, cultura, sensibilità artistica in ogni angolo del mondo. L’Italia: plurale, ricco, articolato, snodo geografico e storico delle civiltà e delle correnti di pensiero che nel Mediterraneo sono nate e lo hanno attraversato, passando da casa nostra. Non per niente, la somma del patrimonio artistico e monumentale del mondo intero non eguaglia il nostro.
Un Paese in cui ogni centro storico, ogni borgo è uno scrigno di memoria, il luogo di una identità unica ed ineguagliabile. E questa enorme ricchezza di culture, di parlate locali, di tradizioni e di costumi, tradotta sul piano della dialettica politica, pensiamo davvero di poterla immiserire nella colonna musicale di strepiti ed urla che accompagnano la rissa tra Giorgia ed Elly?
Domenico Galbiati