Non solo comprensibile, ma anche sinceramente condivisibile, avevo trovato, in questo tragico 2020, l’atteggiamento di una mia amica di origine pakistana che, anche se è nata e cresciuta in America, non ha mai smesso di ostentare con grande orgoglio delle mascherine anti-Covid che assomigliavano più al velo islamico anziché ad una protezione delle vie respiratorie. Non me lo ha mai detto esplicitamente, né io gliel’ho mai chiesto; ma il suo comportamento aveva tutta l’aria di una sorta di rivalsa nei confronti di noi occidentali, che non facciamo mai mancare alle donne islamiche, quando queste si adeguano la loro tradizione, un’occhiata perlomeno ironica, se non sprezzante. “Di tanto in tanto, le cose cambiano, cari occidentali”, sembrava dire il suo sguardo. “Ora tocca non solo alle vostre donne ma tutti voi, andare in giro a volto coperto.” Questo suo atteggiamento, per così dire, rivendicativo, mi ha portato a guardarmi attorno con più attenzione.  E mi è parso di notare che non fosse lei l’unica donna islamica a comportarsi in questa maniera un po’ spavalda, ma mio parere legittima, e in definitiva comprensibile, e neanche spiacevole.

Mi è perciò stato inevitabile provare un certo fastidio, quando da più parti ho sentito formulare delle critiche contro il comportamento degli extracomunitari durante il primo anno della pandemia. Critiche per una loro scarsa propensione ad un corretto e costante uso delle mascherine; critiche che purtroppo è facile verificare come non del tutto infondate, anche se c’è da tener conto del fatto che gli extracomunitari svolgono spesso lavori manuali, talora assai pesanti, e che rendono difficile l’osservanza delle misure di protezione, Per non parlare del cosiddetto distanziamento sociale.

Non sempre, ma abbastanza spesso, temo ci sia in queste osservazioni critiche, una punta di razzismo, cui sarebbe opportuno che la società italiana non desse occasione o alimento. Cercando però, al tempo stesso, di spingere tutti, compresi gli extracomunitari che vivono tra di noi, a non imitare quella non piccola parte dei nostri compatrioti che, che per rozzezza, ignoranza, o per un malinteso rifiuto dei comportamenti imposti,  viola la sola regola che allo stato sembra avere qualche efficacia per sconfiggere il morbo.

Non è però, purtroppo, per niente facile immaginare una qualche forma di incentivazione specificamente diretta agli extracomunitari per un comportamento più in linea con il buon senso. Ed anche con l’unica disposizione che è sempre stata chiara e di facile applicazione, nel mare magnum delle regole che senza sosta, in modo disordinato, torrenziale e sempre mutevole, vengono emesse dalle nostre autorità di governo.

Potrebbe perciò non essere un’idea del tutto incongrua quella di aver ricorso – per raggiungere quegli extracomunitari che finiscono per dare ragione a chi critica la loro scarsa collaborazione – ad una autorità diversa da quella dello Stato italiano, ad una autorità dotata di forza morale più che politica. Nel caso specifico, si potrebbe fare appello alla forza morale di quelle autorità islamiche che sono presenti nel nostro paese. In altri termini, potrebbe non essere incongruo pensare che tali autorità emettessero una fatwa per il porto della mascherina, e di condanna contro non osservanza delle misure  anti-contagio, che – come è sotto gli occhi di tutti –possono essere efficaci e risolutive solo se applicate dall’insieme degli abitanti della penisola, italiani o stranieri che siano.

La fatwa non è una maledizione. La fatwa è un’opinione pronunciata da un “dottore della legge e della fede”, uno specialista della legge islamica, di norma come risposta ad un quesito sottoposto da una persona, da un gruppo o da un giudice, per regolare un problema sul quale la giurisprudenza islamica non si è espressa in maniera esplicita.  In genere, la materia trattata da una fatwa investe questioni attinenti non solo alle pratiche rituali, questioni fiscali o relative alla carità, ma anche all’alimentazione e all’igiene. E non sempre include una condanna contro una o più persone, e tantomeno una condanna a morte, come molti credono in Occidente a seguito della fatwa emessa dall’Ajatollah Komeini contro l’autore dei celebri “versetti satanici”, Salman Rushdie. Più spesso quel che viene condannato è un vizio, un comportamento dannoso – ad esempio, il fumo. Celebre, in questo senso, è stata la fatwa pronunciata nel 2017 su richiesta di un’organizzazione femminili, il   “Congresso delle donne Ulema”, contro il matrimonio forzato dei minori.

Il credente è ovviamente tenuto a osservarla e a farla osservare, il che di fatto autorizza ad intervenire contro chi si lascia andare ad un comportamento condannabile. E ci sono scarsi dubbi che non proteggersi dal contagio durante una pandemia sia un comportamento di tale natura.

Come in tutte le questioni che concernono i comportamenti collettivi, e che possono influire sulla convivenza civile, è naturalmente indispensabile prendere in considerazione non solo gli aspetti etici e giuridici, ma preventivamente valutare ogni decisione anche sotto il profilo della opportunità politica. E ciò ancora di più quando si tratta di questioni che concernono in maniera particolare una soltanto delle varie componenti di una società.; una componente, per di più, minoritaria, e che ha difficoltà a trovare moralmente corretti molti comportamenti della società che la ospita. In una società ormai multietnica, multiculturale e multi-religiosa quale l’Italia si appresta a diventare – e per molti versi è già diventata – il ricorso ad uno o più “dottori della legge e della fede” islamica per promuovere l’usa della mascherina, per facilitare l’identità dei comportamenti, e in definitiva il consenso e l’integrazione degli immigrati nella comunità autoctona, è probabile irriti più di una fazione.

Da un lato, è probabile che irriti qualche estremista identitario, che si maschera da conservatore delle tradizioni e protettore dell’identità nazionale. Dall’altro lato, chi ha scoperto che “con i rifugiati si fanno più soldi che con la droga”, e vorrebbe tenere eternamente gli extracomunitari nell’ambiguo status di “tutelati”, di marginali bisognosi di assistenza.

Per parlare agli extracomunitari nel linguaggio della legge e della fede islamica, che è tra di essi maggioritaria, bisognerà perciò tenere conto delle posizioni e delle critiche di entrambe queste pericolose fazioni, non solo per combatterle e contestarle, ma anche per interpretarle e riproporre in maniera costruttiva. Nell’Italia del 2021, così violentemente sottoposta all’attacco della pandemia non sarà dunque facile far giungere ad una parte oggi per molti aspetti sfavorita della sua popolazione la voce dell’interesse al tempo stesso individuale e collettivo. Ma in quest’azione volta al bene comune, il ricorso ad una fatwa per incoraggiare il porto della mascherina, e quindi il riconoscimento di un importante ruolo alla cultura giuridica islamica ed al prestigio morale dei suoi esponenti, può insomma configurarsi come un fattore positivo. E ciò tanto al fine di rendere più rispettate le regole richieste dalla lotta alla pandemia, quanto a quello di far sentire reciprocamente meno estranei e distanti “nuovi” e “antichi” Italiani”.

Giuseppe Sacco

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