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Per un lavoratore italiano su dieci, il Primo maggio c’è ben poco da festeggiare. Nel nostro Paese, infatti, il 10,2% degli occupati è a rischio povertà. Sono i cosiddetti working poor: persone che, pur lavorando, faticano ad arrivare alla fine del mese.

Quello che viene definito “lavoro povero” è un problema europeo, ma l’Italia fa peggio della media UE e di altri grandi Paesi, come Francia e Germania. E questo mette in discussione una certezza su cui si era sempre basato il nostro sistema di welfare: che il lavoro garantisse di non trovarsi in povertà.

Non è più così, ormai da anni. Questo dovrebbe portare a ripensare il rapporto tra politiche di contrasto alla povertà e politiche per l’occupazione, che spesso si mischiano con esiti negativi, come è successo con il Reddito di cittadinanza. Eppure alcune soluzioni, in cui gli attori del secondo welfare giocherebbero un ruolo importante, si potrebbero provare. A maggior ragione in assenza di politiche nazionali degne di nota.

“Si può fare molto a livello locale e di parti sociali”, ci ha spiegato Andrea Garnero, economista dell’OCSE. La sua è una delle voci che abbiamo raccolto nell’approfondimento Il lavoro non è più la soluzione alla povertà. Lo abbiamo pubblicato in occasione del Primo maggio. Ci è sembrato il modo migliore per prendere seriamente una ricorrenza importante come la Festa del lavoro.

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