Con l’inizio del nuovo anno mentre si infittiscono le congetture sul possibile inizio di un cammino verso la fine della guerra tra Russia e Ucraina, merita porsi la domanda “Putin sta vincendo la guerra?” e di conseguenza se la risposta è positiva “potrà dettare le condizioni della pace?”.

Le notizie dal fronte del Donbass sembrerebbero accreditare una risposta positiva a queste due domande. L’esercito russo, seppur lentamente e a prezzo di perdite umane terribili, avanza su quel fronte e l’Ucraina sembra non riuscire ad arrestare questa progressione. Dunque aver scatenato una ingiusta e crudele aggressione sta pagando?

Una più attenta valutazione della guerra mossa da Putin all’Ucraina, la cosiddetta “Operazione militare speciale” e delle sue conseguenze suggerisce una risposta alquanto diversa. Esaminiamo gli aspetti più rilevanti.

Il primo aspetto che ogni leader politico responsabile dovrebbe considerare è il costo umano di una scelta politica. Anche se i dati sono difficili da ottenere con sicurezza in un contesto di guerra (e in Russia la loro pubblicazione è considerata un crimine) il numero di morti e feriti anche della sola parte russa è impressionante: confrontando diverse ricerche indipendenti si arriva ad una cifra tra i 140.000 e i 209.000 morti e un numero di feriti che potrebbe essere almeno tre volte più grande (CLICCA QUI).

Se queste cifre non sembrano ancora scuotere l’opinione pubblica russa è perché il peso di questa carneficina ricade
prevalentemente sulle componenti etniche più marginali e povere del paese la cui partecipazione alla guerra è letteralmente “comprata” con generosi stipendi ai combattenti (fino a tre volte il salario di un operaio civile) e con compensazioni alle famiglie dei morti mentre, in assenza di una  coscrizione generalizzata, le fasce benestanti della popolazione russa sono esentate dallo sforzo bellico.

Il secondo aspetto è quello degli obiettivi strategici che hanno informato la “operazione speciale”. Sia che ci si basi sulle dichiarazioni iniziali di Putin sugli obiettivi dell’invasione dell’Ucraina, sia che si consideri come è stata condotta inizialmente questa operazione militare è chiaro che l’intenzione dell’autocrate russo era quella di riportare l’Ucraina nell’ambito di un impero russo destinato a risorgere dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Obiettivo da raggiungere sia decapitando con l’attacco a Kiev la leadership politica ucraina (definita per scopi di propaganda come “nazista”) e sostituendola con una leadership russofila, sia privando il paese di ogni accesso al Mar Nero
annettendo le due regioni meridionali di Zaporiggia e Cherson e i porti di Mariupol e Odessa.

Questo disegno, che avrebbe configurato la prima grande espansione territoriale per via militare di uno stato nel continente europeo dopo la seconda guerra mondiale, avrebbe fatto dell’Ucraina uno stato satellite, una seconda Bielorussia, o addirittura l’avrebbe pienamente inglobata nella Russia.

Questo progetto neo-imperiale di Putin, che doveva essere realizzato in tempi rapidi contando sulla lentezza di reazioni degli Stati Uniti (scottati ancora dalla umiliante uscita dall’Afghanistan nell’agosto 2021) e di una Unione Europea priva di una vera politica estera comune (e ancor più di una difesa integrata), nonché sullo sfaldamento dello stato ucraino, è però fallito di fronte alla inattesa capacità di resistenza dell’Ucraina che ha fornito le basi per un sostegno finanziario e in termini di risorse militari sia degli Stati Uniti che dell’UE. Dunque un clamoroso errore di valutazione da parte della leadership personale russa che ha creduto di poter interpretare l’Ucraina alla luce di
una propria arbitraria interpretazione della realtà ucraina ed ha sottovalutato la disponibilità dell’Europa e degli Stati Uniti ad accettare un cambiamento unilaterale così importante della realtà territoriale del continente europeo.

Sul piano militare, dopo quasi tre anni di guerra, le truppe russe non sono ancora riuscite a completare la conquista delle due province di Donetsk e Lugansk (già parzialmente annesse nel 2014), hanno solo parzialmente occupato le province di Cherson e Zaporiggia, e faticano a difendere la Crimea dai contrattacchi ucraini (tanto che hanno dovuto
ritirare la flotta militare dei porti di questa regione). L’apparato militare russo, che oggi deve addirittura fare ricorso al rinforzo di truppe nordcoreane, ha mostrato tutte le sue debolezze dietro l’enorme quantità di risorse impegnate contro l’Ucraina che ha un terzo della sua popolazione e un PIL che è meno di un decimo.

Se poi allarghiamo lo sguardo il fallimento dell’azzardato disegno originale di Putin sull’Ucraina ha avuto conseguenze negative anche più vaste. L’azione aggressiva di Putin ha rapidamente portato la Finlandia e la Svezia, due stati neutrali ma vicini territorialmente alla Russia, a chiedere e ottenere l’entrata nella NATO, contro la tradizionale preferenza russa ad avere una fascia neutrale ai propri confini. E ha cominciato a risvegliare (seppur lentamente) nell’Unione Europea, sotto lo stimolo soprattutto degli stati membri orientali, la convinzione della necessità di costruire una politica estera e di difesa comune. Ma anche in stati tradizionalmente nell’orbita russa (come il Kazakistan) si è iniziato a guardare con maggiore sospetto le ipotesi di integrazione militare con il vicino russo. Persino Lukashenko, l’autocrate leader della Bielorussia, un paese fortemente dipendente dalla Russia, pur atteggiandosi a sostenitore di Putin, continua a respingere l’ipotesi di una piena unione statale con l’alleato che sacrifichi la sovranità del paese.

Se poi guardiamo agli effetti sulla economia (e sulla società) russa, questi per l’impatto combinato dello sforzo bellico e delle sanzioni occidentali si stanno rivelando progressivamente sempre più negativi dietro la facciata di una crescita quantitativamente ancora sostenuta (3.6% nel 2024 secondo la Banca centrale russa CLICCA QUI). L’economia russa si è trasformata in una economia di guerra. Il settore non militare dell’economia è quindi sempre più compresso da quello militare che si avvale di una spesa pubblica per la difesa che raggiunge ormai il 32% del bilancio statale (bilancio 2025), più del doppio della spesa sociale, e che può contare su salari largamente più alti. Contemporaneamente il rublo perde di valore (ormai più di 100 rubli per dollaro), il tasso di inflazione sale (9.2.% in media nel 2024, ma con livelli ben più alti per molti beni come quelli alimentari), e la Banca Centrale russa alza il tasso principale di interesse al 21% (che si traduce in tassi per i prestiti alle famiglie e alle imprese ancora più alti). I settori della popolazione e delle imprese non legati alla difesa sono ovviamente quelli più colpiti da questa
situazione. Il bassissimo tasso di disoccupazione (2.3% nel 2024) di una popolazione in declino conferma il surriscaldamento dell’economia.

Questo quadro economico ha fatto emergere in pubblico per la prima volta un netto conflitto tra la direttrice della Banca Centrale (orientata a contenere l’inflazione con un ulteriore rialzo dei tassi di interesse) ed esponenti di grandi gruppi economici (che lamentano il crescente costo del denaro). La Banca Centrale ha per ora ceduto accettando a dicembre 2024 di tenere fermi i tassi ma ha rinviato a febbraio del 2025 una nuova valutazione. Un primo segno delle contraddizioni interne che l’invasione dell’Ucraina sta producendo nella Russia e nei suoi gruppi dirigenti.

Forse sta arrivando il tempo di avviare un percorso di pace? Sì, perché i dati suggeriscono che anche la Russia ne ha sempre più bisogno. Il cammino verso la pace richiede però che il fallimento del progetto putiniano non sia mascherato da ulteriori conquiste territoriali e che il sostegno all’Ucraina rimanga fermo e compatto e soprattutto sia chiaro che l’Ucraina deve ottenere solide garanzie nei confronti di future aggressioni.

Solo su queste basi sarà possibile ricostruire un ordine europeo pacifico e non effimero del quale anche la Russia dovrebbe aver parte.

Maurizio Cotta

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