Come noto il “PPE, PARTITO POPOLARE EUROPEO” è il partito politico più numeroso dell’ Europarlamento e il punto di riferimento delle sue principali scelte politiche. Il “popolarismo” è dunque l’idea prevalente e più diffusa in Europa? Le cose, come usa dire, sono un pochino più complesse, se andiamo un po’ al di là della superficie delle parole.
I partiti del Parlamento Europeo sono partiti particolari ed il PPE si è formato nel tempo, attraverso vicende peculiari, per successive addizioni ed innesti, attraverso una sorta di melange di forze non soltanto “popolari”, ma più spesso liberal-conservatrici, come i conservatori greci nel 1981, i popolari spagnoli nel 1989, i conservatori danesi e britannici nel 1992 e Forza Italia nel 1998. Una sorta di matrimonio di interessi popolari-conservatori certamente utile per bilanciare le forze socialiste, l’altra componente della rappresentanza europea.
Del resto tutti i partiti europei” sono molto più simili ai Parliamentary parties della tradizione inglese che non ai partiti politici che avevamo in Italia, nella cosiddetta “prima repubblica”, che erano partiti di origine extraparlamentare , erano le “formazioni sociali” in cui si cristallizzavano le idee diffuse e condivise e che poi davano vita. attraverso la competizione elettorale, alle loro rappresentanze parlamentari. Ed ovviamente gli attuali “partiti europei” ancor meno hanno a che fare con gli “one man ( o one woman) parties”, che dominano la vita pubblica italiana, in cui ciò che unicamente conta è il leader con la sua efficacia comunicativa, ma non il corpo sociale, con le proprie idee e convinzioni. Potremmo dire partiti in cui, rovesciando in senso grottesco la nota frase di Giovanni Falcone, gli uomini e le persone restano, le idee passano e mutano velocemente, come etichette che si cambiano con disinvoltura. Sono i “partiti” che hanno mutato la lotta politica nella gara tra opposte tifoserie del “bipolarismo dominante”.
Gli attuali “partiti europei” sono comunque una realtà molto diversa rispetto a ciò che essi avrebbero dovuto essere secondo il trattato di Lisbona ( NTUE), che delinea al par. 4 dell’ art. 10 i partiti come canale privilegiato “per esprimere la volontà dei medesimi cittadini” oltre che “per la formazione di una coscienza politica europea”. E soprattutto una realtà ancor più diversa rispetto a ciò che avrebbero dovuto essere i partiti come “fattori di integrazione” come si era scritto nel vecchio Trattato del 1957 sulle comunità europee.
Giustamente si parla per essi di “partiti di secondo grado” ( M. Podetta, Per un nuovo modello di rappresentanzal Parlamento Europeo, in: Federalismi.it, 23 febbraio 2022, p. 136). Le alleanze e gli innesti tra le diverse componenti nazionali devono convivere infatti con la subordinazione alle forze ed ai partiti nazionali di provenienza, di cui essi rappresentano il braccio parlamentare , pur essendo parte di una struttura sovranazionale. Sono i partiti nazionali quelli che designano i candidati alle elezioni politiche europee e cioè decidono la composizione della classe politica europea.
E non potrebbe esser diversamente con elezioni europee come elezioni di secondo ordine, che si presentano come una somma di ventisette elezioni nazionali che si svolgono in contemporanea. Mai si è infatti dato seguito alla proposta parlamentare di fissare una quota del 10% di parlamentari da eleggere in una circoscrizione unica transnazionale formata dal territorio degli stati membri.
E d’altra parte persino il PPE, il partito più numeroso, e con maggior continuità, ha mostrato una evidente assenza di coesione interna, spaccandosi in due addirittura nella votazione del novembre 2024 su un progetto di riforma dei Trattati adottato il 25 ottobre in Commissione affari Costituzionali col suo pieno appoggio, e votando in aula ( per una metà dei suoi componenti) un NO esattamente come i partiti euroscettici e come i Conservatori e Riformisti.
Populismo e tecno-populismo
Con l’espressione di conio giornalistico “populismo”, espressione poi sovrappostasi al concetto storiografico che faceva riferimento a movimenti politici specifici, si intende una modalità di gestione delle democrazie liberali o anche di quelle autoritarie ( illiberali) in cui il consenso è coltivato e gestito utilizzando slogan, parole d’ordine e concetti auto-prodotti dalla massa e poi restituiti alla massa stessa ed amplificati nella veste di concetti, parole e, più spesso, immagini, che le riproducono e in un certo senso le legittimano. Esempio tipico: la motosega di Javier Milei come emblema indicativo del taglio della inutile e inefficiente spesa pubblica.
Semplificare e banalizzare il dibattito politico per capitalizzare il consenso in democrazie in cui la politica vera e il dialogo politico non esistono più da tempo, ridurre la politica a questioni identitarie ( Prima gli Italiani, Difendiamo i confini, Tagliamo le poltrone dei politici e via dicendo) è qualcosa che è servito ad assicurare il potere non la miglior gestione delle società. Ma ha anche prodotto disastri cui poi hanno cercato di porre rimedio, in Italia, in modalità discutibili se non peggiorative, i governi senza maggioranza politica, i “governi tecnici”.
Oggi però sembra profilarsi una nuova forma di populismo, il “tecno-populismo”, come pare essere quello di Milei , ma anche, in qualche misura, e per certi aspetti, persino quello del governo italiano in cui la guida della presidente Meloni e del ministro Giorgetti ha come stella polare i parametri finanziari ed europei rispettati con grandissimo e draconiano rigore, ovviamente costi quel che costi. Le agenzia di rating da tempo valutano positivamente il nostro spread, mentre resta ai sociologi la certo più triste e più deprimente descrizione del lavoro povero e dei suoi effetti disastrosi nella società italiana che, pure ci dicono, ha raggiunto i livelli massimi di occupazione.
L’elettorato non si accorge però di questa duplicità del tecno-populismo, considerando da un lato inevitabile il rispetto di quei precisi vincoli finanziari, come se avessero un valore assoluto, dall’altro esprimendo il consenso verso gli elementi identitari che il leader sa ben individuare ed utilizzare ( questa la capacità essenziale richiesta al leader populista)
E’ un populismo questo che, liberato dai vecchi ed ormai inusabili slogan identitari ( magari adottandone altri) potrebbe agevolmente confluire entro il “popolarismo misto” esistente nel parlamento europeo e notevolmente mixato con conservatori e liberisti.
I punti di forza e i tratti distintivi del popolarismo
Per chi crede nell’utilità del popolarismo è perciò tempo di esplicitare i punti di forza e i tratti distintivi che rendono impossibile confonderlo col populismo comunque mascherato. Il popolarismo sturziano si presentò con alcuni punti di forza che è opportuno ricordare e ripristinare, punti che in realtà sono oggi più attuali che mai.
Punto primo: è il popolo che condiziona le scelte delle classi dirigenti e non viceversa ed Il populismo è sempre anti-democratico in quanto “ si pone come un superamento della democrazia, perché mira precipuamente a sovvertire le basi della rappresentanza sostituendola col principio di identità, nel senso che conferisce il primato alla rassomiglianza e alla similitudine tra governanti (leader) e governati (popolo).” ( Flavio Felice In mezzo alla gente Come passare dal populismo al popolarismo, p, 42, La Società, n. 4/2016).
Il prescelto dal popolo, il premier o leader non può mai incarnare in questa visione, il ruolo dell’ ”unto del Signore”. Tra governati e governanti si frappone sempre una distanza che, nella vera democrazia, si può realizzare solo nel pluralismo e nella libertà, che servono ad assicurare la massima espressione del dialogo razionale, del confronto e della discussione, senza cui ogni decisione maggioritaria non sarebbe diversa da una pura imposizione. Sarebbe una dittatura della maggioranza.
Potremmo dire che in questo concetto sturziano la democrazia deve valorizzare soprattutto la rappresentanza, deve valorizzare cioè una democrazia rappresentativa. Potremmo dire che questo è un elemento di straordinaria attualità . In effetti la priorità assiologica di essa non solo in Italia, ma nell’ UE e nel mondo occidentale, è un elemento essenziale da contrapporre al delirio di onnipotenza e di follia, che scaturisce dalle figure di capi di governo investiti dalla legittimazione assoluta del voto popolare anche in Stati democratici. E’ incontestabile che la responsabilità politica postuli infatti la distinzione tra chi risponde e chi fa valere la responsabilità. “ essa pertanto, senza istanze rappresentative, non esiste ; poiché solo tali istanze rendono possibile al corpo elettorale sanzionare , con lo spostamento dei consensi, le maggioranze politiche che non abbiano soddisfatto le attese” ( A. D’ Atena, Democrazia illiberale e democrazia diretta nell’era digitale, Rivista AIC , 2/2019, p. 7, 18 giugno 2019).
Ma poi vi è un secondo punto di forza, la capacità di limitare il potere, una capacità che non è affidata solo agli automatismi di autoregolazione, come la separazione dei poteri montesquiviana o i checks and balances di cui andavano orgogliosi gli americani. Tutto questo non basta più, è evidente. E’ più che mai necessario, nel vero popolarismo, l’intervento del popolo, inteso come “ il popolo (che) esprime una forza sociale di controllo in quanto esercita la funzione di limite mediante organismi procedurali istituzionali”.( Flavio Felice, Come passare dal populismo al popolarismo cit.)
Le forme e i limiti della sovranità popolare delineati nella nostra Costituzione valgono infatti solo se vi è chi li può far valere. Paradossalmente, come si è detto, pur essendo diritto positivo, le costituzioni non possono valere in quanto valgono ( come avviene invece per ciò che chiamiamo diritto positivo) ma debbono valere in quanto siano capaci di coniugare storia e futuro. Nessuna Corte Costituzionale da sola può supplire a questa rottura tra storia e futuro, tra cultura civile radicata nel passato e progetti di futuro.
Ed è qui che si evidenzia ancor di più il ruolo del popolo come “forza morale di controllo”, “il popolo come luogo di resistenza etica , mediante la sua articolazione in partiti, sindacati, mass-media, società civile e come forza motrice capace di mutamento e di civilizzazione” ( Flavio Felice, Come passare dal populismo al popolarismo, cit. p. 43).
E’ dalla paziente ma coraggiosa ricostruzione di questa cultura umanistica, costituzionale e politica che bisogna ripartire, non solo in Italia, per restituire al popolo la sua missione democratica e persino “progressista”, oggi necessaria soprattutto per superare i deliri narcistici e nichilistici dei leader solitari e onnipotenti. Ricordiamo la grande osservazione del padre del realismo politico, di Niccolò Machiavelli, difensore dell’idea repubblicana, che nei Discorsi sopra la deca di Tito Livio scrive che “ quanto alla prudenzia e alla stabilità dico, come un popolo è più prudente, più stabile e di miglior giudizio che un principe” ( Discorsi soprala prima Deca ecc. Libro 1, cap. 58°) giudizio certo valido solo laddove il popolo vive in un contesto ordinato di leggi e istituzioni. Laddove esistono cioè quelle condizioni culturali che è urgente da noi ricostruire, con la nostra iniziativa politica.
Il punto di partenza in Italia per questa ricostruzione esiste ed è in ciò che affermava Don Sturzo, ma anche in ciò che Costantino Mortati definiva “costituzione materiale”, che nulla ha a che vedere con la nozione giornalistica che degrada l’espressione ad una sorta di costituzione di fatto, ma che si identifica invece col nucleo fondamentale di valori e principi che sono i principi supremi espressi nei primi dodici articoli della nostra Costituzione che sono il vero motore del processo di attuazione costituzionale e di progresso umano: il principio democratico e pluralista, il principio di eguaglianza e quello di tutela del lavoro, il principio della inviolabilità dei diritti e quello di solidarietà, il principio del ripudio della guerra e della priorità della pace intesa come ordinamento internazionale fondato sul principio di giustizia.
Questo “popolarismo” e questa idea di popolo sono l’unico antidoto non solo al deperimento delle democrazie liberali, ma alla follia del potere assoluto e monocratico “perché un principe- noi diremmo un leader- che può fare ciò ch’ei vuole è pazzo” ( Niccolò Machiavelli, Discorsi cit. Libro 1 cap. 58). E’ da questa antica e sempre nuova cultura politica, radicata nell’umanesimo civile cristiano, che occorre ripartire.
Umberto Baldocchi