La signora lombarda, cinquantenne, che – gravemente invalida per una forma severa di Sclerosi Multipla – è deceduta da un paio di settimane, ricorrendo alla procedura del “suicidio medicalmente assistito”, se ne è andata lasciandoci una testimonianza importante.

Nel suo ultimo messaggio ha affermato che la decisione di porre volontariamente fine alla propria esistenza è sorta quando la sofferenza del corpo ha pervaso anche l’anima. Con poche parole ha proiettato un lampo di luce sul drammatico percorso che rovescia la vita nella morte. Un mistero inaccessibile, eppure da avvicinare, con rispetto.

Nel linguaggio di tutti i giorni consideriamo la vita e la morte come due condizioni esattamente antitetiche, le classiche due facce della stessa medaglia. Cosicché se c’ è l’una non c’è l’altra e viceversa. Ma non è così.

Le due facce guardano in direzioni opposte, in modo tale che i loro occhi non si incrocino mai. In realtà, la vita e la morte sono intrecciate, anzi intrise l’una nell’altra. Non possono mai del tutto sottrarsi l’una all’altra. Si tengono per mano ben più di quanto comunemente pensiamo.

È difficile anche solo immaginare la dolorosa torsione interiore, i sentimenti, le cascate emotive indecifrabili, la nostalgia ed il rimpianto, le speranze tradite, il tremore, l’alito agghiacciante della solitudine, la sofferenza morale profonda, più penetrante del dolore fisico della malattia, che accompagnano questo rovesciarsi del tempo che si consuma a ritroso, piuttosto che avanzando. Siamo posti di fronte ad una di quelle condizioni-limite dell’umano che ci dicono molto di ciò che siamo davvero, illuminano la radice più riposta della nostra identità.

La signora in questione ci ha detto chiaramente che, a costo della propria vita, ha voluto difendere la propria dignità. Ha, dunque, avvertito come il valore più alto non sia la vita, ma la dignità della persona. Tocca, per certi aspetti, quel vertice di consapevolezza che hanno raggiunto i martiri di tutte le fedi. Coloro che hanno compreso come le ragioni vere, autentiche per cui vale la pena vivere, siano le stesse per cui valga la pena morire.

Anche chi non condivide un simile gesto estremo, non può fare a meno di accostarsi con un profondo rispetto a persone che vivono un’esperienza così devastante, ma, nel contempo, talmente penetrante della propria umanità. Del resto, il suicidio, ogni forma di suicidio appartiene davvero alla sfera della morte? Oppure non è, piuttosto, l’ultimo sprazzo di vita concesso a chi non può che sancire, con un gesto estremo, la morte che nel suo cuore è già intervenuta?

Mai come in una simile situazione, vale l’ammonimento evangelico a non giudicare per non essere giudicati.
Peraltro, situazioni di questo genere ci mostrano anche come neppure il dolore fisico, bensì solo una sofferenza morale profonda, lo smarrimento di ogni speranza, soprattutto il venir meno delle relazioni di cui ogni persona vive giungono a ferire il nucleo più interiore ed intimo di ciascuno di noi, fino a fargli desiderare la morte.

E tutto ciò interpella a fondo anche la politica e le sue responsabilità sul fronte dei dei diritti sociali.

Domenico Galbiati 

About Author