Quando fu introdotta la riforma che ha modificato profondamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, condivisi – come molti riformisti – l’idea di fondo: che fosse necessario passare da un sistema centrato sulla difesa rigida del “posto fisso” a un modello più moderno, in cui il diritto al lavoro fosse garantito non dalla permanenza forzata in un’azienda, ma da tutele nella transizione, politiche attive efficaci e reali opportunità di ricollocazione. Era una visione che cercava di tenere insieme flessibilità e sicurezza, dinamismo e dignità.
Ma quella visione è rimasta incompiuta. Invece di un nuovo equilibrio tra diritti e innovazione, si è prodotta una rottura: i diritti sono stati ridotti, mentre gli strumenti promessi in cambio – formazione, protezione, accompagnamento – non sono mai arrivati, o sono rimasti fragili e marginali. Le politiche attive, pilastro annunciato della riforma, non hanno mai davvero preso forma.
Oggi, con il referendum, si chiede l’abrogazione di uno solo degli otto decreti attuativi del Jobs Act, quello che ha introdotto il meccanismo delle “tutele crescenti” per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle imprese con più di 15 dipendenti. Non è quindi corretto dire che il referendum cancelli il Jobs Act. Ma è vero che interviene su un punto cruciale: il nodo della tutela in caso di licenziamento ingiustificato.
Alcuni, come Tommaso Nannicini, sottolineano che quella norma è già stata in parte superata dalla Corte Costituzionale, che ha restituito ai giudici la possibilità di decidere l’indennizzo in modo più flessibile. È un’osservazione fondata, ma che non risolve la questione: non è stato ancora ricostruito un sistema equo, universalistico e coerente di tutele. Il vuoto non è solo normativo, ma anche culturale. Negli anni, il lavoro è stato sempre più rappresentato come una variabile da rendere flessibile, e non come una dimensione fondativa della cittadinanza. Abbiamo così aperto la strada a una precarizzazione crescente, spesso invisibile ma reale, che colpisce i giovani, le donne, i lavoratori meno garantiti, e logora la coesione sociale. Per questo oggi penso che votare SÌ non significhi tradire un’idea riformista del lavoro, ma tentare di salvarla.
Riformismo non vuol dire accettare l’indebolimento progressivo dei diritti, ma cercare – anche faticosamente – un nuovo equilibrio tra libertà d’impresa e giustizia sociale. E questo equilibrio oggi si è rotto. Il SÌ non è un salto all’indietro: è un segnale. Un modo per dire che la questione lavoro è ancora aperta. Che non possiamo accettare un sistema che distingue i lavoratori in base alla data di assunzione. Che la dignità di chi lavora non può dipendere solo dal costo di un risarcimento predeterminato.
Votare SÌ significa riaprire un confronto, rimettere il lavoro al centro della vita democratica, costruire una nuova stagione di diritti, anche dentro le trasformazioni dell’economia e dell’organizzazione produttiva. Certo, il referendum non basta, e chi lo sostiene dovrebbe essere il primo a dirlo con chiarezza.
Ma il NO chiude, mentre il SÌ apre. Apre uno spazio per ripensare, riformare davvero, ricostruire un patto tra lavoro e società. Anche all’interno del Partito Democratico il confronto è acceso. C’è chi, come Giorgio Gori, ritiene questo referendum un tentativo illusorio di tornare indietro, e chi – come Andrea Orlando o Marco Carra – ne coglie invece la possibilità di un riscatto, anche autocritico, rispetto a scelte passate. Paolo Gentiloni parla di una “resa dei conti nell’album di famiglia”, e Francesco Boccia tenta una mediazione, vedendo in questa chiamata al voto un segnale possibile di partecipazione democratica e di attenzione ai diritti universali.
Io non credo che serva scegliere tra memoria e innovazione, tra passato e futuro. Credo piuttosto che oggi, proprio dentro questa polarizzazione, si possa indicare una via di maturità politica: riconoscere che alcune riforme sono rimaste incompiute, che certe tutele vanno ripensate, che il lavoro – nella sua dignità e nella sua precarietà – è la vera frontiera su cui si gioca la tenuta democratica del Paese.
In questo senso, assume particolare significato anche l’invito al voto formulato dalla Conferenza Episcopale Italiana. I vescovi hanno ricordato che l’astensione può diventare “una forma di impotenza deliberata” e che partecipare è un’espressione di civiltà matura. I referendum, secondo la CEI, toccano questioni essenziali della convivenza: la dignità del lavoro, la sicurezza negli appalti, la tutela dei più fragili, la cittadinanza di chi già vive e contribuisce nel nostro Paese.
Il SÌ che propongo non è nostalgico, ma generativo. Non è un ritorno, ma un rilancio. Un gesto che chiama tutti – anche chi ha promosso, difeso o criticato il Jobs Act – a riaprire il cantiere del lavoro, in un tempo nuovo. Non per riavvolgere il nastro, ma per ripartire da ciò che è rimasto sospeso. È con questo stesso spirito che guardo anche agli altri quesiti referendari. Ridare forza all’indennità per i lavoratori delle piccole imprese, frenare l’abuso dei
contratti a termine, rafforzare le responsabilità negli appalti, riconoscere in modo più giusto la cittadinanza a chi già partecipa alla vita del Paese: non sono battaglie ideologiche, ma segni di un possibile riequilibrio sociale.
Tutte queste scelte – anche nella diversità dei contenuti – ci pongono la stessa domanda: vogliamo una società che protegga chi è più debole, o una che accetti la diseguaglianza come inevitabile? Io credo che la risposta debba partire da un SÌ. Un SÌ che non guarda indietro, ma più lontano.
Gianni Bottalico
Pubblicato su www.agendadomani.it