C’è stato un tempo, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, in cui la globalizzazione appariva come la promessa di un mondo finalmente unito dal progresso, dalla tecnologia e dalla libera circolazione di merci e capitali. Era l’era dell’ottimismo liberale, di Internet e dell’euro, di un’Europa che pensava di potersi espandere senza limiti e di un’Italia che sognava di colmare il suo ritardo. Ma dietro quell’entusiasmo, come ha ricordato Ernesto Galli della Loggia sul sito del Corriere della Sera, si nascondeva un meccanismo capace di travolgere interi sistemi produttivi e sociali, soprattutto quelli più fragili. Quando, nel 2001, gli Stati Uniti spalancarono le porte del commercio mondiale alla Cina, credendo di aver trovato un partner e non un rivale, si innescò un processo irreversibile: il lavoro occidentale cominciò a costare troppo, le fabbriche si spostarono verso Est, le economie locali si svuotarono. E il Sud, già penalizzato da un divario strutturale, ne pagò il prezzo più alto.
Il Mezzogiorno travolto dalla concorrenza asiatica
Nel nuovo millennio, la globalizzazione ha agito come un uragano silenzioso. Le grandi manifatture del Nord Italia hanno potuto reggere la competizione grazie a capitali, infrastrutture e mercati esteri. Ma al Sud, dove la piccola e media impresa artigiana costituiva il tessuto vitale dell’economia, l’urto è stato devastante. La delocalizzazione, che per molti sembrava una strategia razionale, ha svuotato interi distretti, lasciando dietro di sé capannoni chiusi, disoccupazione e perdita di competenze.
Il Mezzogiorno non ha beneficiato né dei flussi commerciali né dei capitali globali: non aveva porti adeguati, né logistica, né un sistema di credito capace di sostenere l’innovazione. Così, mentre i container pieni di prodotti cinesi approdavano a Gioia Tauro o Taranto per poi risalire verso i mercati del Nord Europa, il Sud rimaneva un semplice corridoio, non un protagonista. La promessa di modernizzazione si è trasformata in una nuova forma di marginalità, più subdola perché mascherata da progresso inevitabile.
Il risveglio dell’Europa e la lezione del Sud
Oggi, dopo oltre vent’anni, il bilancio della globalizzazione appare, per usare le parole di Galli della Loggia, “abbastanza grigio”. L’Occidente ha perso pezzi di sovranità industriale, mentre la Cina — che ha usato il libero mercato senza mai liberalizzarsi politicamente — è diventata una potenza globale. Le diseguaglianze si sono accentuate, la ricchezza si è concentrata e i territori più deboli, come il nostro Mezzogiorno, sono rimasti ai margini della nuova economia mondiale.
Eppure, proprio dal Sud può partire una riflessione diversa. Qui si è toccato con mano il volto ambiguo della globalizzazione: quello che promette sviluppo ma genera dipendenza, che apre i mercati ma chiude le fabbriche. Ripensare il futuro del Mezzogiorno — e dell’Italia intera — significa allora chiedere un nuovo equilibrio tra apertura e protezione, tra competizione e coesione sociale. Perché una globalizzazione senza regole non è progresso: è solo la ripetizione, su scala planetaria, di vecchie disuguaglianze. E a pagarne il prezzo, ancora una volta, è il nostro Mezzogiorno.
Michele Rutigliano