Non è la prima volta che, con l’arrivo di un nuovo governo, si assiste all’assalto alla diligenza Rai. Ne abbiamo viste tante. E anche stavolta ce ne dobbiamo fare una ragione perché questa è la logica corrente. Resterà tale fino a quando non si giungerà ad un’autentica riforma diretta soprattutto a restituire la gestione della più grande azienda culturale italiana agli italiani. Anche se da anni, e Licio Gelli con la sua Pd2 già ci fece più di un pensierino, c’è chi pensa di rispondere ai misfatti, anche ai propri, pensando ad una nefasta svendita.

Una premessa è importante alla luce delle polemiche scatenatesi dopo che, con l’introduzione di una legge ad hoc, anzi un decreto legge, e su questo moltissimo ci sarebbe già da dire, è cominciata quella che le opposizioni hanno già preannunciato come una vera e propria occupazione della Rai. La premesse è che si parla sempre e solamente dei posti di dirigenza giornalistica e pochissimo di quell’enorme gestione di soldi pubblici, perché con il canone si è autorizzare ad utilizzare questo termine, che finisce negli appalti delle tre reti.

Tra due anni saremo ai cinquant’anni della riforma del 1975 quando cominciò a diventare familiare agli italiani il termine “lottizzazione” per superare la gestione quasi esclusiva fino ad allora rimasta, questa era la tesi dei partiti d’opposizione, esclusivamente nelle mani della Democrazia cristiana e degli altri partiti di governo. Cosa che andrebbe, in realtà, approfondita perché in Rai non ci furono mai solamente democristiani e non mancarono le attenzioni alla variegata pluralità del mondo culturale, sociale ed economico. Non è, tanto per fare un esempio, che Confindustria e sindacati non fossero tenuti nell’adeguata considerazione. Anche al momento delle assunzioni di giornalisti, registi, ed altro personale. E questo valeva anche per tutti gli altri partiti. Altrimenti, non avremmo assistito improvvisamente alla nascita di una Rete 2 di “sinistra” il giorno dopo la riforma.

Progressivamente, comunque, emerse l’esigenza di giungere ad un’emittenza radio televisiva in grado di divenire, nella forma e nella sostanza, più pluralista. E in una società ancora tutta dominata dallo scontro politico l’unico criterio che sembrava realisticamente perseguibile era quello della lottizzazione in cui venivano coinvolti tutti i partiti, grosso modo sulla base del loro peso elettorale.

Fino al ’75 si era ai due canali, ma con una programmazione giornalistica unica e si passò alla creazione di una Rai Uno, con il Tg1, e Rai Due, con il Tg2. Poi, si giunse alla creazione di un terzo canale, quattro anni più tardi, anche per tenere conto dell’ancora fresca articolazione regionale del Paese e, quindi fu concepito per soddisfare le esigenze di fornire un’informazione locale, regione per regione.

Con quella legge di riforma il controllo passò dal Governo al Parlamento che viveva una stagione di “centralità” oggi sfumata. Furono anche creati gli spazi per il cosiddetto “accesso” dedicato a tutte le voci della politica, ma anche a quelle della società civile ed economica.

La tanto criticata “lottizazione” era anche gestita dai partiti all’insegna della qualità offerta dai loro segnalati, e fatti assumere. E questo faceva parte della logica della competizione. Perché gli “yes man” – o le “yes woman” finisci solo per ritrovarti nei guai. Grazie alla scelta sulla base della qualità, la Rai è diventata quella che è diventata ed è riuscita a sopravvivere a tutti i tentativi di ridimensionamento messi in atto con l’arrivo di televisioni commerciali non sottoposte alla vigilanza parlamentare, E questa è, per alcuni versi, un altro paradosso del tutto italico.

Che la qualità fosse l’unica garanzia per il futuro della Rai, fu cosa ben capita dai politici di allora fino a quando, con gli anni ’90 l’assalto alla diligenza è diventato un fatto periodicamente acquisito e si è smesso di guardare alle competenze di chi si metteva a cassetta. Oggi ci facciamo un altro tratto così in quel Far west che sono diventate la politica e la comunicazione. Viva la Rai.

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