Il referendum del 20 e 21 settembre propone un taglio consistente del numero dei parlamentari: da 945 a 600, un terzo degli attuali. In tempi normali avrei detto di NO alla loro diminuzione. Avrei detto di NO per una serie di ragioni. La più importante è che la rappresentanza delle minoranze politiche, territoriali, sociali e religiose, è un valore per la nostra Costituzione, che richiede grandi numeri e buoni politici che la interpretino.

In tempi di populismo galoppante mi sono convinto invece che le ragioni del SI possono prevalere.

Per i populisti la politica è cosa semplice. Con pochi interventi mirati, tutto tornerà al suo posto. Basta ascoltare la voce del popolo. Basta valorizzare l’idea di nazione, chiudere le frontiere, mettere dazi sui prodotti cinesi, combattere le burocrazie e le élites economiche, rottamare le caste. Per far questo 600 parlamentari sono più che sufficienti.

Non è possibile non contestualizzare la scadenza referendaria ai tempi del populismo.

In nome del popolo, stiamo assistendo in molte parti del mondo al progressivo abbandono della cultura dei diritti, alla mortificazione delle istituzioni di garanzia, alla marginalizzazione dei parlamenti. Una prospettiva inaccettabile, una tendenza da contrastare. Non c’è altra strada se non quella indicata da J. Medison nel Federalist, quando afferma che la voce del popolo espressa dai suoi rappresentanti risponde al bene di tutti, meglio della sua espressione diretta.

Il referendum del 20 settembre viene propagandato come strumento anticasta, antipolitico, finalizzato a contenere gli sprechi della politica. Ma qui le cifre ballano e ogni conteggio sugli ipotizzati risparmi può anche essere discusso. Il punto, per quanto mi riguarda, non merita eccessivo interesse: la grande politica può richiedere anche grandi costi. Meritano approfondimento invece altri tipi di argomenti.

Innanzitutto. Il referendum è un’occasione per riflettere sulla crisi della rappresentanza, che è anche crisi della democrazia. Su questi temi, la demagogia populista non va dileggiata, va presa sul serio e va contrastata sul suo stesso terreno. Il sistema politico italiano infatti non può reggere senza un recupero di fiducia nei confronti dei suoi rappresentanti. Chi può negare che il ruolo delle lobbies nei confronti del legislatore è molto alto, mentre esistono vaste fasce di territori e di elettori estromessi? Chi non vede che il ceto politico appare come una classe a sé stante, guerreggiante per fini mediatici piuttosto che per ragioni ideali? Chi può negare che i grandi gruppi, le élites economiche hanno una capacità di ascolto e di condizionamento delle politiche pubbliche molto maggiore dei singoli cittadini? Nicolò Macchiavelli ce l’aveva già detto: i ricchi dopo aver conquistato la ricchezza aspirano anche al potere.

Tutto vero. Ma, la risposta alla crisi della democrazia non sta nell’invocazione salvifica della Nazione: un’entità magmatica, che scambia il popolo con il suo mito. Si ritrova piuttosto nella competizione delle idee, che qualifica la classe politica e stimola gli elettori a scelte consapevoli. Per questo, le problematiche della scuola e della formazione dei giovani tornano sempre al primo posto.

I filosofi sono ossessionati su come installare le virtù politiche nei giovani. James Madison sosteneva che «un popolo che intende governarsi da solo, deve armarsi del potere che gli dà la conoscenza».

Pertanto, considerato che la comunicazione digitale ha cambiato le regole della partecipazione, è indilazionabile anche una qualche forma di autodisciplina contro la diffusione di informazioni false o istigatrici all’odio.

La diminuzione dei parlamentari introdurrà una rappresentanza di 150.000 abitanti per deputato e di 300.000 per senatore, a fronte della rappresentanza attuale, pari a un deputato ogni 80.000 abitanti e un senatore ogni 190.000. È tanto, è poco?

Ogni considerazione di carattere numerico ha poco peso. Stando ai numeri, negli Stati Uniti la Camera dei rappresentanti ha un rapporto di 760.000 abitanti per deputato. Certo lì ci sono 50 assemblee statali con poteri enormi. Verissimo. Ma anche in Italia, dopo l’entrata in vigore delle regioni legislative, sono stati istituiti venti consigli regionali e due consigli provinciali che hanno il potere di fare leggi. E poi, molte funzioni statali sono passate dal parlamento nazionale alle istituzioni dell’Unione Europea. Lo Stato centrale è dimagrito, sia verso il basso che verso l’alto.

Il referendum molto probabilmente passerà. Il numero dei parlamentari verrà ridotto. Subito dopo bisognerà affrontare una serie di problemi veri, che si riassumono in una formula: garantire le minoranze parlamentari e territoriali, attraverso l’adozione di un sistema elettorale di tipo proporzionale, la nuova delineazione delle circoscrizioni elettorali, una diversa articolazione delle maggioranze richieste nelle procedure parlamentari, l’introduzione di efficaci formule di cooperazione tra parlamento e assemblee legislative regionali.

L’imperativo categorico resta però uno: restituire una prospettiva di futuro ai giovani e a chi una prospettiva di futuro non ce l’ha. Solo così si salva la democrazia.

Guido Guidi

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