La Corte d’Appello ha rimandato le carte al Gup del processo Regeni perché non c’è la certezza che gli imputati accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso il nostro connazionale Giulio in Egitto, abbiano ricevuto la citazione del Tribunale. Si tratta di agenti del sevizio segreto egiziano. Per lungo tempo abbiamo assistito a tutti i tentativi messi in essere dalle autorità del Cairo per evitare che si giungesse a fare giustizia. L’Italia è giunta anche a richiamare per un po’ il nostro ambasciatore, ma senza che si sia concluso molto.

Con la fine delle indagini e l’apertura del processo, la famiglia Regeni, e con essa tantissimi italiani, avevano sperato di veder stabilità la verità e l’assicurare alla giustizia i responsabili di un efferato delitto ai danni di un giovane che, forse si sarà trovato incolpevolmente in un gioco più grosso di lui, ma che sicuramente non meritava assolutamente di finire in quel mondo, e senza aver fatto niente di più che condurre delle ricerche per la sua tesi di laurea. Invece, niente.

Adesso, in qualche modo l’iter processuale dovrà ripartire con la speranza che si possa essere certi del rispetto dei diritti degli accusati. Siamo un Paese dove regna lo stato di diritto ed è inevitabile che noi si assicuri ciò che non proprio dei paesi dittatoriali o retti da regimi militari.

Ma questo è un caso dove è la Politica chiamata a fare che non è proprio della Magistratura e, questa volta, intervenire duramente con le autorità egiziane: almeno, si facciano loro carico di consegnare a membri dei loro servizi le carte italiane.

Il nostro Governo dovrebbe, però, prepararsi ad andare ben oltre e fermamente segnalare alle autorità egiziane che gli italiani non sono affatto disposti a mettere il caso Regeni nel dimenticatoio. Il Governo lo dovrebbe fare ben intendere, e chiaramente, al generale al Sisi, costi quel che costa. Ne va di una famiglia, di tutti noi e della dignità nazionale. Non basta costituirsi parte civile di un processo che potrebbe persino rischiare di non farsi più.

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