Mentre la domanda di acciaio torna a crescere in tutto il mondo, i prezzi salgono e il Piano nazionale di ripresa (Pnrr) prevede investimenti rilevanti, ecco che il lento processo di ritorno alla normalità del complesso siderurgico a ciclo integrale di Taranto rischia ancora una volta di interrompersi.
Questa volta è la sentenza di un processo durato cinque anni che condanna i vecchi proprietari privati, alcuni dirigenti anche pubblici e politici locali ritenuti colpevoli di reati gravissimi quali l’associazione per delinquere e il disastro ambientale. Non solo, ma la sentenza pur di primo grado chiede la confisca del cuore dell’acciaieria, ovvero l’area di produzione a caldo (altiforni, cockerie,ecc) dove si utilizza il minerale di ferro e non i rottami per ottenere acciai più sofisticati e in grado di rispondere ad esigenze diverse dal mercato.
La storia della acciaieria di Taranto è lunga, controversa e forte segno di contraddizione per essere raccontata in poche righe. Ma e bene riportare alla memoria almeno che il complesso siderurgico è stato di proprietà e gestito dallo stato per quarant’anni e dai privati per diciassette; che il problema ambientale è prevalentemente generato dalle polveri dei parchi di minerale di ferro accumulato ad aria aperta (non certo le polveri sottili dell’inquinamento urbano); che i quartieri intorno all’ acciaieria c’erano prima dell’insediamento industriale ma si sono estesi per effetto dei piani regolatori degli amministratori locali; che le ciclopiche coperture dei depositi sono state quasi ultimate per intero; che attraverso la legge per le amministrazioni straordinarie si è giunti all’ affitto-vendita dell’ acciaieria al più grande produttore di acciaio del mondo, poi alla minaccia di questi di andarsene, quindi ancora all’ intervento dello Stato con la creazione di una nuova società mista.
Ora non è tanto la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Taranto a mettere di nuovo in discussione l’esistenza l’acciaieria, visto che ci saranno i giudizi in Appello e in Cassazione, ma piuttosto una ordinanza del sindaco di Taranto, già accolta dal Tribunale Amministrativo Regionale ed ora davanti al Consiglio di Stato.
Se anche questo provvedimento fosse confermato, per il più grande complesso siderurgico europeo si aprirebbe una nuova fase dove vedremo impegnati su un fronte difficile il Governo, la Regione, gli enti locali, il sindacato, le associazioni ambientaliste e chi più ne ha più ne metta. Le alternative vanno dalla bonifica di determinate aree, peraltro in corso, alla conversione degli altiforni a forni elettrici, fino a vagheggiare mastodontici interventi per l’utilizzo dell’idrogeno come fonte di energia. Per tacere delle folli idee di convertire il complesso industriale in un parco botanico e acquatico, frutto questo dell’incredibile tempo pure vissuto del no-Tav, no-Ilva. e altri no, come se fossimo il Paese di Bengodi e le grandi opere fossero accessori a richiesta, come gli optional delle auto. E’ già successo con l’acciaieria di Bagnoli, dove gli ambientalisti e gli amministratori locali hanno ottenuto la chiusura e dopo trent’anni non c’è nessun parco acquatico ma solo desolazione.
Intanto che si discute la produzione di acciaio, che vedeva Taranto garantire quasi un terzo del totale nazionale, è caduta con seri rischi per la nostra industria manifatturiera. Dopo essere stata per quasi un secolo una potenza siderurgica ora l’Italia rischia di dover acquistare l’acciaio dai tedeschi e dai turchi. Nella speranza, questa volta, non di aspettare Godot come nella commedia di Samuel Beckett ma almeno Draghi, Giorgetti e un governo che funziona.
Guido Puccio