Questa che segue è la seconda parte dell’articolo pubblicato ieri (CLICCA QUI)
La nuova, e incompiuta, identità civile : il patriottismo al posto del nazionalismo
Solo il secondo conflitto mondiale e la Resistenza realizzarono, o meglio, cercarono di realizzare il superamento di questo “civismo nazionalista” dando un nuovo significato, costituzionale, al concetto di “patria” e quindi anche alla “difesa della patria”.
Il testo costituzionale italiano non conosce sinonimi: Patria, Nazione, Stato, Repubblica non sono mai in essa termini ambigui o intercambiabili, ogni termine è usato nel suo senso originario ed è non sostituibile senza alterazioni di senso.
Il vecchio civismo, liberale ed anche fascista, aveva puntato sul fattore unificante della nazione . La Repubblica e la Costituzione invece assegnano questo ruolo alla patria. Nazione richiama la fedeltà ad un territorio, ad una comunità di storia, di lingua, di religione, di tradizioni se non di sangue, ad un insieme di riti abitudini e memorie comuni. La Patria invece richiamando l’idea del padre (e della madre) verso cui i figli hanno un debito di riconoscenza, implica sempre, entro una sorta di caritas cristiana, la fedeltà ad una comunità aperta, senza chiusure, segnata da reciprocità, giustizia, pietà, eguaglianza ed amore verso ciò che è bello e buono, ma è spesso fragile, debole, delicato.
Se la memoria unificante si costruisce attorno al concetto di nazione, ne consegue che si debbano privilegiare i confini, le differenze, le identità, la forza, la priorità dello Stato, la decisione in alto e l’obbedienza in basso, e non si può non sottintendere il concetto di guerra, come principio in vista del quale organizzare le proprie relazioni internazionali. La capacità di difesa sembra la vera forza che unisce, come avviene in una competizione dove c’è sempre un avversario, potenziale o reale. La memoria costruisce allora una unità escludente che, per esistere, ha sempre bisogno di una realtà rispetto a cui distinguersi e contrapporsi, di confini da difendere, di culture da salvaguardare, ma non promuove in prospettiva la costruzione di una concordia di cui non ha alcun bisogno. Se, al contrario, la memoria unificante si costruisce attorno al concetto di patria, si devono privilegiare invece la concordia, il dialogo, l’intelligenza umana, l’eguaglianza, il rispetto della dignità, la priorità della persona, la giustizia, la fraternità, la responsabilità, in alto ed in basso, ed, in ultima istanza, si sottintende la pace come elemento fondante in vista del quale agire nelle relazioni internazionali. In questo caso è la capacità di costruire relazioni la sola forza che unisce, come avviene in una famiglia in cui ci si sostiene l’un l’altro. La patria, che non è entità territoriale, non ha confini fisici, come una famiglia può sempre allargarsi. La memoria costruisce in questo caso una unità includente, in cui l’obiettivo primario è coordinare e addirittura condividere le risorse, oggetto di competizione, come fecero i grandi statisti di Francia e Germania, che, dopo essersi combattuti per secoli, dettero vita alla CECA nel 1951.
Purtroppo questo rinnovamento non avvenne nella cultura scolastica e nella cultura diffusa ed all’epoca rimasero isolati i tentativi coraggiosi di ridisegnare una diversa identità civile italiana, come quello di Don Lorenzo Milani nella Lettera ai cappellani militari del 1965 e nella Lettera a una professoressa del 1967. Si continuò invece a subordinare la patria alla nazione, a confondere la prima con la seconda, conservando le basi per un civismo nazio-centrico anche se non più nazionalista. Né l’internazionalismo astratto della sinistra comunista o anarchica (“nostra patria è il mondo intero”)poteva offrire alcuna soluzione concreta al problema.
Il Quattro Novembre, in queste condizioni, era soprattutto ancora la memoria di una vittoria nazionale, in un mondo in cui gli Stati-nazione erano una realtà sempre meno influente.
1968: il Quattro Novembre rimesso in discussione
Qualche perplessità sulla tenuta della vecchia e deamicisiana identità civile si manifestò col centenario dell’ Unità. Nel 1959, il film La grande guerra di Monicelli, che focalizzava questa debolezza nei due soldati-cialtroni, impersonati da Gassman e Sordi, portava alla superficie il venir meno del senso dello Stato e della forza dell’identità civile italiana. Solo il finale- sollecitato apertamente dalle Associazioni d’Arma- in cui i due si riscattavano eroicamente e “miracolosamente” di fronte al nemico straniero che offendeva l’italianità, finendo fucilati, salvava parzialmente le cose.
Il problema esplose però clamorosamente alla vigilia del Sessantotto, quando entrarono nell’adolescenza i giovani nati fuori dall’educazione fascista, la prima generazione di italiani repubblicani, che avrebbero dovuto esser stati educati nello spirito della Costituzione.
Il Quattro novembre offrì così una delle prime occasioni per manifestare la rottura che aprì le contestazioni del Sessantotto. Gli orientamenti pacifisti o comunque favorevoli alla pace, tornata “di moda” all’inizio degli anni Sessanta, rendevano incomprensibile “celebrare” una vittoria militare, ed anche soltanto fare memoria delle vittime di una guerra.
La nuova percezione del primo conflitto mondiale, letto ora soprattutto attraverso la “lente” di un grande conflitto sociale interno al paese, evidente nella contrapposizione generali-truppa, era ormai completamente diversa rispetto alla vecchia narrazione. Ne dà un quadro efficace il film del 1970 Uomini contro di Franco Rosi, liberamente tratto da Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu, combattente della grande guerra. L’ “anomalia” di questo film nel contesto dell’epoca è evidente: il film dovette esser girato fuori di Italia , in Jugoslavia, ed il regista fu denunciato, ma poi assolto in istruttoria per vilipendio dell’esercito italiano. Al centro del film la follia inumana della grande guerra ed in particolare le assurdità della macchina di comando e l’ inadeguatezza dei comandi militari che guidavano gli eserciti, a partire da quello italiano. Il mito identitario del civismo nazionalistico era ormai in frantumi. Purtroppo senza che un altro civismo lo rimpiazzasse.
In questo “vuoto civile” che il movimento del Sessantotto, almeno ai suoi inizi, avrebbe forse potuto riempire con un nuovo civismo, ereditò, si consolidò l’estraneità diffusa ai valori della patria, disastrosamente confusi, addirittura sino ad oggi ancora per molti, con quelli della nazione. La parola “patria” e “patriota” si caricarono di valenze nazionalistiche o autoritarie che ne trasferirono l’uso alle Destre, “espropriando” di essa le altre forze politiche per cui esse erano termini impronunciabili. Dalla coscienza degli Italiani evaporavano così non solo il mito della nazione, ma anche l’amor della comunità politica e del bene comune, l’idea di dovere e il senso dello Stato, soffocati sempre di più dalla partitocrazia, dai grandi e potenti interessi privati, dalle convenienze economiche e finanziarie, dal perseguimento di un progresso e di un benessere privato e individuale che sembrava ormai alla portata di tutti a tempo indefinito. La libertà aveva ormai prodotto il benessere ed il benessere doveva portare l’uguaglianza.
Il Quattro novembre, a partire dagli anni settanta, rischiava perciò di essere una ricorrenza ”superflua”, che riguardava soprattutto i militari e si svolgeva al chiuso delle caserme. Questa temperie culturale- l’idea del benessere individualistico e della democrazia come “paese del Bengodi”, senza alcun senso dello Stato, accompagnata ancora dal mito della violenza- fu però la porta spalancata ai nuovi processi di decivilizzazione rappresentati, in successione, dal terrorismo, dalle culture mafiose dell’anti-Stato, dal dilagare della corruzione , per finire con la negazione della politica, la personalizzazione del potere, la minimizzazione dei vincoli costituzionali e il crollo della democrazia partecipativa, nonché della prospettiva di una costruzione della pace. Pace era solo la fortunata e casuale condizione di assenza di guerra. (segue)
Umberto Baldocchi