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Ritorno del Quattro Novembre?
Fu la presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi ( 1999-2006) a ridare importanza alla ricorrenza del Quattro Novembre ed, insieme, a rilanciare il concetto costituzionale di “patria”, con cui esso era opportunamente posto in relazione. Ma oggi dopo Gaza e dopo l’ Ucraina quale senso può avere fare memoria della conclusione di una guerra di un secolo fa? Quale senso può avere la memoria della grande guerra e dei suoi esiti di fronte alle tragedie belliche inusitate cui assistiamo? Quale il contenuto di quella memoria comune che anche il Presidente della Repubblica chiede di onorare?
Come negli anni settanta vi è anche oggi chi propone,in nome dei valori della pace, di boicottare, contestare o ignorare la ricorrenza del Quattro Novembre, intesa puramente come espressione di militarismo e di culto della guerra. Sarebbe una scelta, credo, non solo deleteria e irrazionale, ma totalmente priva di serio fondamento storico.
Sono, come noto, diversi gli eventi storici di cui proponiamo sia fatta memoria nelle scuole e nella società. Poco alla volta ne scopriamo di nuovi oppure rileggiamo alla luce delle conoscenze storiche nuove il senso stesso della memoria che vogliamo onorare. Questo mi sembra il caso del Quattro Novembre nell’ Italia 2025.
La memoria storica è essenziale alla convivenza civile, come la ricerca storica è necessaria a costruire, rivedere e tener viva quella memoria. Solo la ricerca vera ci consente di rileggere e comprendere il passato, come ed anzi meglio dei contemporanei e dei testimoni oculari. Sappiamo oggi molto meglio dei contemporanei cosa è stata la rivoluzione industriale, perché la rivoluzione francese ha avuto quegli esiti e cosa era davvero alla base del sommovimento drammatico detto rivoluzione russa, cosa era il comunismo e cosa è stata la grande guerra.
Fare “memoria” di un evento epocale ed europeo
Sappiamo oggi che la “grande guerra” è stata una sorta di “madre di tutte le guerre del XX e forse del XXI secolo”. E’ stata il grande laboratorio di una raffinata cultura della guerra, alimentata da miti e pregiudizi, arrivata, con poche modifiche, addirittura ai nostri giorni. Ed una guerra che delinea una forma inaudita di potere politico, un potere privo di limiti, senza costituzione e senza diritto, un potere verticale e nichilista, le cui proiezioni finali possiamo vedere bene oggi un secolo dopo, lo stesso potere che già nel 1918 era alla base dei futuri totalitarismi gemelli , dell’ Olocausto, dei “genocidi” ( a partire da quello, dimenticato, degli Armeni del 1915, se vogliamo essere onesti, pur se il termine fu coniato solo nel 1944 dal polacco Rafal Lemkin), e. ovviamente, del secondo conflitto mondiale che avrebbe chiuso ciò che sarebbe opportuno definire la nuova “guerra dei Trent’anni” ( 1914-1945). Le due guerre mondiali furono infatti due atti consecutivi di un unico dramma. Ed i principali contendenti della seconda guerra furono creature della prima. Non sarebbero mai esistiti senza la prima.
La “grande guerra” è stata soprattutto una grande tragedia collettiva europea. Purtroppo la storiografia, muovendosi sulla scia delle interpretazioni pubbliche della guerra cristallizzate nei trattati ( le responsabilità della Germania) o nelle ideologie ( la guerra imperialista o la guerra per la democrazia) ha focalizzato l’attenzione sulla dinamica dei conflitti interstatali.
Ma i progressi della storiografia e la massa dei documenti oggi esplorati ci consente oggi di vedere la “grande guerra” come un evento europeo, nel senso che gli Stati hanno combattuto l’uno contro l’altro, ma hanno combattuto anche uno insieme all’altro, entro una sorta di grande esperienza condivisa. Al centro della guerra europea vi è il soldato che, in ogni diversa uniforme, vive dovunque più o meno, il medesimo orrore, la medesima sofferenza, il medesimo non senso di questa guerra, da qualunque parte la si osservi.
Milioni di uomini hanno potuto sperimentare lo stesso processo di de-modernizzazione entro il “soggiorno obbligato” delle trincee; hanno potuto sperimentare la dimensione di un combattimento che significava solo schiacciante superiorità dei mezzi sugli uomini, in cui la tecnologia industriale era l’autentico aggressore ed in cui l’identificazione col nemico e la sua motivazione dominante- la sopravvivenza- erano logiche necessarie come dimostrarono i tanti casi di fraternizzazione ed il tacito accordo fra nemici in modo da stabilire “settori tranquilli” lungo il fronte. Hanno potuto sperimentare il peso schiacciante ed alienante di una realtà completamente artificializzata, derealizzata e de umanizzata, che spinge a fidarsi solo dell’immaginazione , propria o costruita da altri non fa differenza.
Hanno potuto sperimentare la dimensione disciplinare anti-umana assunta dallo Stato, evidente sui diversi fronti nelle fucilazioni con processi sommari dei presunti “disertori” e nella punizione delle più piccole insubordinazioni- vittime che chiedono anche esse la restituzione dell’onore dovuto,, la perversione dei valori fondativi del patrimonio culturale condiviso degli Europei. Vale a dire la dimensione pre-totalitaria o proto totalitaria della “grande guerra”. Non a caso soltanto dopo il 1918 l’ uso immediato della forza armata è accettata da masse crescenti di uomini come mezzo ordinario per plasmare la società ( la “rivoluzione armata”). E non a caso dalla stessa tragedia nasce anche l’idea della possibilità di un ordine internazionale che prevenga la guerra, disciplinando il potere, invece di ratificare e congelare ex post gli effetti dei conflitti medesimi. E’ qui, nel cuore di questa tragedia epocale, prima ancora che a Ventotene, che nasce l’idea della costruzione europea.
E’ qui che si scopre la forza impersonale ed antiumana del “progresso” stesso realizzato dagli Stati europei. Un “progresso” sfuggito di mano al suo ideatore. Una guerra vissuta come un non senso per tutti i combattenti a qualunque Stato appartenessero. Una guerra che pone il problema concreto di come regolamentare ed imbrigliare la potenza che l’uomo europeo produce e non sa controllare.
Una guerra “europea” dalle cui tragedia nasce l’idea odierna di una costruzione europea! Non è un caso se le riflessioni federaliste di Luigi Einaudi messe a punto alla fine della guerra e poi raccolte nel 1920 nelle Lettere di Junius saranno il punto di avvio delle riflessioni di Spinelli nel Manifesto di Ventotene.
La storia non è un processo naturale
“ La storia non è un processo naturale , ma un divenire umano, che non si compie da se stesso, ma che deve essere voluto” ( Romano Guardini, Europa compito e destino, Morcelliana, Brescia, 2024, p. 28, testo in realtà del 1962)
E invece per noi, come per gli Europei del 1914, la realtà storica della guerra si è rovesciata ancora una volta. La guerra ritorna come processo naturale, anzi astratto,impersonale, inevitabile e onnipotente, quasi una divinità arcaica.! Una sorta di prolungamento della competizione naturale con altri mezzi, la “weaponisation” di cui parlano con insistenza i documenti UE ! Un elemento naturale ed insopprimibile, un mito terribile come quello che imprigionava le menti dei cittadini europei nel 1914. Al governo che li interrogava sullo stato d’animo degli Italiani i prefetti nel 1915 potevano rispondere che “dopo mesi di tentennamenti, annunci, smentite e voci, l’idea della guerra era ormai entrata nella pubblica coscienza; pochi la volevano ma tutti vivevano come se quella che già veniva chiamatala grande guerra fosse inevitabile” ( Marco Mondini, Il ritorno della guerra, Il Mulino, 2024, p. 133) . E quella idea sta di nuovo imprigionando le menti.
La difesa basta per la tregua, ma non per la pace
E’ per questo che i caduti, senza nome e senza volto della grande guerra in un certo senso ci parlano ancora. Ci rivelano, attraverso i diari ritrovati, le memorie, le lettere e le cartoline qualcosa di nuovo e di antico. Dal Sacrario di Redipuglia, dall’ Altare della Patria, dagli infiniti cippi, colonne, lapidi e monumenti che ricordano fin nei più piccoli paesini , i caduti del conflitto chiedono PACE e denunciano l’assurdità della guerra e soprattutto della cultura moderna della guerra. Ci dicono che NO, LA GUERRA NON E INEVITABILE. Non può essere neppure la inevitabile e conseguenza di un progresso che trasforma ogni cosa in un arma di guerra, di una guerra ormai ibrida, come si dice. Mentre per ora, nello scenario europeo, l’escalation delle scelte pro guerra sembra inarrestabile coinvolgendo poco alla volta anche chi è fuori dalla guerra direttamente combattuta, chi ancora è “non belligerante”, va ribadito che la guerra ( o la pace) dipende sempre e soltanto dalla libera scelta degli uomini e dalla loro responsabilità e capacità di “osare la pace”, in qualunque momento. Anche quando un conflitto generale fosse già in atto. La pace vera, non la tregua precaria, non può essere il frutto della forza armata e delle capacità di difesa pur necessarie. La difesa è una re-azione, sia pur preventiva, ad un pericolo eterno, attuale o potenziale. Ma l’ azione politica vera non è mai semplicemente re-azione, cioè risposta ad uno stimolo o ad una condizione esterna, astratta e impersonale. L’ azione implica che all’origine della scelta ci sia la finalità umana libera non la causalità esterna indotta, “Initium ut esset creatus est homo” ( Sant’ Agostino, De Civitate Dei, XII, 20, L’uomo è stato creato perché vi fosse un inizio”). La vera pace è sempre azione, cioè è sempre un nuovo inizio, non una risposta ai disastri già in essere né una pausa tra due guerre.
Umberto Baldocchi