Una ricorrenza problematica, anche nel nome

“Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate” è il nome oggi assunto dalla ricorrenza civile del 4 novembre che l’Italia, con alcune interruzioni, ha celebrato sin dal 1922, quando fu istituita ufficialmente con la dizione di “anniversario della Vittoria” dal secondo governo Facta, alla vigilia della marcia su Roma.  Riconfermata nel 1946  come “Anniversario della Vittoria della guerra 1915-18” essa è poi divenuta nel 1949  “Giorno dell’unità nazionale” con riferimento all’acquisizione  dei territori irredenti di Trento e Trieste conseguente ai trattati di pace.

Dal 1949 al 2023 la celebrazione è stata  indicata anche come “ giornata delle Forze Armate” pur rimanendo   la denominazione ufficiale quella di “giorno dell’unità nazionale”.

Una indicazione, quella delle Forze Armate, che da prassi è divenuta legge solo recentemente.  La Legge n.27/1 marzo 2024 ha infatti stabilito la nuova titolazione  di Giornata dell’ Unità Nazionale e delle Forze Armate, dopo che il presidente della Repubblica, il 4 novembre  2022, si era espresso  sottolineando che  «Il fatto di ricomprendere in questa giornata la Festa delle Forze Armate appartiene alla tradizione e a quel sentimento di omaggio alla memoria che trova grande riscontro nella coscienza delle nostre comunità. Credo che sia necessario, come ho ricordato alcuni mesi addietro al Governo, di assumere in legge la definizione completa e ufficiale del 4 novembre come Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate.»( Presidenza della Repubblica 4 novembre 2022 URL consultato il 22 ottobre 2023)

Il Presidente Mattarella aveva richiamato l’importanza della tradizione dell’omaggio della comunità alla memoria dei propri caduti di guerra, dando questo senso al riferimento alle Forze Armate, che altro non sono che “il popolo italiano” cioè  “cittadini comuni in armi”,  non un corpo distinto e separato dal popolo, come era evidentissimo  almeno finché è esistita la leva militare.

 Anno 1918: fare festa, perché’?

In effetti la “celebrazione” del 4 novembre ha, sin dall’inizio, suscitato perplessità, contestazioni e divisioni.  E rischia suscitarle ancora.  Una festività nazionale deve infatti essere un fattore unificante per funzionare, ma proprio questa funzione unificante è stata un problema.  La grande guerra che l’aveva preceduta,  anche se con l’ Italia “vittoriosa”, non era stata né una guerra di indipendenza, né un conflitto ordinario, ma un logoramento e uno sconvolgimento sociale e globale.  Subito all’indomani della fine  del conflitto  la perplessità si avvertì chiaramente.

“Far festa, perché?  La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e  mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito pronto, l’animo accresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e svolgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza. E centinaia di migliaia del nostro popolo sono periti, e ognuno di noi rivede, in questo momento, i volti mesti degli amici che abbiamo perduti, squarciati   dalla mitraglia, spirati sulle aride rocce, o tra i cespugli. Lungi dalle loro case e dai loro cari. E la stessa desolazione è nel mondo tutto, tra i popoli nostri alleati e tra i nostri avversari, uomini come noi , desolati più di noi, perché tutte le morti dei loro cari, tutti gli stenti, tutti i sacrifici non sono valsi a salvarli dalla disfatta.  E grandi imperi  che avevano per secoli adunate e disciplinate le genti di gran parte dell’ Europa, e indirizzatele al lavoro del pensiero e della civiltà al progresso umano sono caduti: grandi imperi ricchi di memorie e di glorie  e ogni animo gentile non può non essere compreso di riverenza dinanzi all’adempiersi inesorabile del destino storico , che infrange e dissipa gli Stati come gli individui per creare nuove forme di vita”  (Benedetto Croce, Pagine di guerra, 4-11-1918)

Ai traumi ed alle piaghe descritte da Croce dovremmo anche aggiungere la grande pandemia di” spagnola” 1918-19, una epidemia micidiale, causata direttamente dalla guerra e favorita, nel suo dilagare, proprio dalla censura di guerra, che impediva di parlarne apertamente ed ostacolava la prevenzione. Una epidemia che, con circa mezzo milione  di morti in Italia, quasi quanto i militi caduti in battaglia,  contribuì a moltiplicare il numero degli “orfani di guerra”, purtroppo tali di fatto, ma non di diritto.

Una mito  identitario e unificante : il cittadino-soldato

Perché allora celebrare e ricordare la guerra nelle condizioni politiche e sociali tanto drammatiche che segnavano l’ Italia nel 1918? E proprio quando l’ Italia era entrata in guerra divisa e ne era uscita ancor più divisa di prima? Perché farlo, quando questa celebrazione poteva suscitare fortissime contrapposizioni tra ex combattenti e cittadini non combattenti, che erano stati neutralisti o ostili alla guerra e che finivano per vedere, erroneamente,  nei primi dei guerrafondai o dei militaristi?  Perché farlo quando soprattutto i veterani di guerra- a  loro volta in polemica coi “disfattisti” che non avevano combattuto- si sentivano abbandonati e traditi dai governi che avevano fatto tante promesse ai fanti che si logoravano  nelle trincee ?

Il fatto è che la guerra totale, la guerra di nuovo tipo da taluni invocata come igiene del mondo, con la terribile eredità che aveva lasciato – “Per noi la guerra non è cessata” gridavano le pagine del “Fascio”, settimanale della sezione milanese dei Fasci di combattimento nell’estate 1919- , aveva aperto un trauma insanabile nel corpo sociale italiano, un trauma che spingeva  il Paese verso l’abisso. Trasferendo, prima di tutto, la violenza entro le relazioni civili. Le classi dirigenti non potevano che  correre ai rimedi.

Ci si rese conto che era necessario un nuovo  mito/evento fondativo per una vera cittadinanza italiana, che sostituisse quella ancora precaria che esisteva- quante reclute analfabete intendevano bene l’italiano?-  e desse vera coesione civile al Paese, dilaniato da una frattura crescente. Veniva al pettine il nodo irrisolto del “fare gli Italiani” dopo aver “fatto l’ Italia”. Una prima via di uscita si cercò e si ritenne di averla trovato nel cuore del conflitto stesso. In  effetti  era nato dalle viscere stesse della guerra di trincea il mito del cittadino-soldato che nel suo peculiare “civismo” privilegiava i valori della sofferenza, dell’obbedienza, del coraggio, della abnegazione, spinta quasi al martirio secondo lo spirito dei racconti di Cuore del De Amicis. Chi ha fatto le scuole dell’obbligo negli anni cinquanta e sessanta ricorda, oltre la Canzone del Piave, i sodati semplici eroi, come Cesare Battisti, Fabio Filzi, Francesco Baracca, Enrico Toti, descritti nei sussidiari elementari .  Persone comuni, anche se eroi, simili ai  tantissimi soldati i cui nomi erano incisi sui monumenti o sulle lapidi di quasi tutte le Chiese dei paesini italiani.

Il  cittadino-soldato necessitava di un simbolo  unificante, un “eroe comune” che rappresentasse il sacrificio collettivo in nome della comunità nazionale, quello che fu poi individuato nel “Milite Ignoto” la cui salma, scelta da una donna del popolo, nel 1921  fu collocata sull’ “Altare della Patria”al centro del “Vittoriano”, cioè al centro del monumento simbolo dello Stato, realizzato nel 1911 nel primo giubileo dell’ Italia unita. Per la prima volta nella storia italiana il popolo si faceva Stato. Il sacrificio oscuro dei fanti sconosciuti si fondeva  con quello di tutti gli altri, trasformandosi ,in un certo senso, in una adesione alla comunità statuale , oltre che in una  pressante implorazione alla pace, che compariva nel finale della poesia “ La grande preghiera” di Armando Gozzi, riportata sul retro della cartolina del Milite Ignoto.

Questa prima ricostruzione, certo unilaterale, di una “memoria storica” subito dopo l’evento, rispondeva alla funzione politica di superare quel divorzio Stato-popolo, che aveva  pesato a lungo sulla realizzazione dello Stato unitario. Questa  unità tra Stato e popolo, una esigenza ignorata da liberali e socialisti, fu  poi monopolizzata e confiscata, a proprio vantaggio, dal  regime fascista che  considerò il “combattere” un destino inevitabile della nazione italiana, un destino legato indissolubilmente ad una inquietante secolarizzazione politica della fede ( il “credere”) e ad una deferenza totale verso il potere di governo ( l’ “obbedire”). La narrazione della guerra promosse così  la “civilizzazione nazionalista” che avrebbe favorito l’occupazione fascista del potere. (segue)

Umberto Baldocchi

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