Quella di Saman è un’orribile tragedia, nel senso classico del termine. Mette in scena quel convitto insanabile, senza vie d’uscita e, dunque, irrevocabilmente destinato ad un esito cruento, che si pone originariamente  tra le leggi dello Stato e quelle della famiglia – tra le ragioni del diritto e le pretese ancestrali del sangue – e solo poi, secondo Goethe, investe ogni altro tipo di relazione.

La tragedia è tale perché attinge le ragioni ultime, le radici fondative della nostra umanità e delle relazioni sorgive che le danno forma. Per Seman essere italiana significava essere libera.

Non dobbiamo dimenticarla ed, anzi, di anno in anno sarebbe bene dedicarle una giornata di ricordo e di riflessione perché il suo sacrificio ci riguarda, è anche un monito alla nostra cattiva coscienza e, ad un tempo, il paradigma a rovescio delle responsabilità cui ci richiama il fenomeno migratorio, che è pur sempre, un versante di quel processo di globalizzazione da cui non possiamo enucleare ciò che ci fa comodo e dimenticare il resto.

Diceva di sentirsi una “italian girl” ed in tal modo, senza volerlo,  rendeva uno straordinario omaggio alla nostra Costituzione. Riconosceva implicitamente che erano i diritti ivi contemplati a consentirle di essere sé stessa. E’ una lezione anche per noi che spesso scivoliamo nella retorica: la Costituzione non è un apparato giuridico-formale, ma, piuttosto, anzitutto, una corrente di vita che scorre dalla sua fonte, dal sacrificio dei tanti “ribelli per amore”, come li chiamava Teresio Olivelli, che le hanno dato la loro giovinezza, fino ai ragazzi di oggi. Anche a chi, come Saman, solo quando giunge da noi, da paesi lontani, scopre di essere non un oggetto, ma una “persona” unica ed irripetibile.

La libertà, in fondo, è feconda e contagiosa e ciò se,  per un verso, è molto incoraggiante, per altro verso è una cosa tremenda, perché ci costringe a considerare come la libertà del nostro prossimo dipenda anche dalla libertà che ciascuno di noi è più o meno capace di coltivare nella propria interiorità.

A fronte del fenomeno delle migrazioni, dobbiamo formarci all’idea che non esiste solo un’economia dei beni materiali e degli oggetti di consumo, cioè una “economia del benessere” che sostanzialmente usurpa questa definizione, dato che di fatto ristagna nel dominio dell’ “avere”. C’è, piuttosto, anche una economia del “ben essere”, che sembra soffocata dalla prima, costretta ad ingrottarsi in meandri carsici che la occultano alla nostra vista ed alla nostra percezione consapevole degli effettivi valori in gioco, ma che, in alcuni momenti topici – e la tragedia di Saman  è uno di questi – prorompe incontenibile e mostra di essere, per quanto misconosciuta, sovraordinata all’altra.

Ci sarebbe molto da dire attorno a questa dinamica, riconducibile, in termini più generali, a quella tensione tra la logica del “possesso” e la logica del “dono”, che dovremmo indagare a fondo perché, probabilmente, nelle sue pieghe si nasconde la chiave di volta per governare i processi della globalizzazione, anziché lasciare che ci travolgano.

Finché non capiremo l’urgenza di porci su questa lunghezza d’ onda, non riusciremo a concepire l’ ordine cui ricondurre quei processi di integrazione che dobbiamo necessariamente saper elaborare se non vogliamo trovarci spiazzati ed a mani nude a fronte di uno sviluppo multietnico delle nostre comunità,  che nessun “miles gloriosus”, che indossi una corazza di latta o piuttosto una felpa, posto a difesa dei nostri confini, riuscirà ad arrestare, perché ha dalla sua la forza di uno sviluppo storico che appare “necessario”, cioè coerente con una più avanzata e consapevole ricerca di senso del vivere umano.

L’incrocio, il mix tra popoli ed etnie differenti è da sempre il motore dello sviluppo dell’umanità, quindi sostanzialmente nulla di nuovo sotto il sole. Senonché, questo processo si è manifestato fin qui come una sorta di costante ed ininterrotto rumore di fondo, ed ora sembra rivendicare l’evidenza del primo piano e diventare addirittura  l’onda montante dello sviluppo storico dei nostri giorni.

Abbiamo mille volte ragione quando rivendichiamo che Lampedusa sia assunta  come confine d’Europa, eppure questa latitanza degli altri paesi ha un riscontro anche nella sostanziale eclissi cui, in ultima analisi, anche le forze di casa nostra, di destra o di sinistra che siano, vorrebbero consegnare il fenomeno delle migrazioni. Non possono fare a meno di occuparsene quando i “barconi” incalzano e via via si presentano all’orizzonte delle nostre coste, ma, se appena possono, se ne tengono a debita distanza e non si affronta davvero e fino in fondo né il tema di una regolazione programmata dei flussi – in cui  far rientrare anche quell’ “aiutiamoli a casa loro” che, se considerato strategicamente, ha pur un senso – né il tema di un’ azione studiata, che, nel solco dei principi costituzionali, delinei percorsi ragionati di progressiva e monitorata integrazione delle persone, senza cedere alla suggestione di “enclaves etniche” che prefigurino anche da noi  “banlieus” in cui la separatezza dal contesto civile complessivo alimenti processi di radicalizzazione di costumi antitetici ai nostri.

E neppure noi, meno ancora, poiché nasciamo nel solco dell’ispirazione cristiana, possiamo sottrarci. Qui, del resto, Costituzione e Dottrina Sociale della Chiesa, i due fari cui guardiamo, si incrociano, intrecciano, scambiano e reciprocamente alimentano le rispettive, convergenti ragioni.

Domenico Galbiati

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