Un giorno, un dopo pranzo, eravamo nella seconda metà degli anni ’70, Eugenio Scalfari mi chiese di poter usare una delle macchine per scrivere della postazione dell’agenzia stampa per cui allora lavoravo alla Camera dei deputati. Lo fece da collega a collega, con molto garbo e semplicità nonostante fosse uno dei “mostri sacri” del giornalismo italiano  e la sua La Repubblica stesse già insidiando Il Corriere della Sera come giornale più venduto in Italia. Senza un appunto da consultare, si mise a scrivere per un paio di ore buone, incurante del grande cicaleccio che animava sempre la Sala Stampa di Montecitorio. Alla fine compose un numero di telefono e disse: “Guido ti leggo cosa ho buttato giù”. Lesse e non ricevette alcuna richiesta di cambiamento del testo. Mi ringraziò per l’ospitalità e se ne andò al giornale.

Il giorno dopo su La repubblica campeggiavano due pagine intere con una sua intervista a Guido, cioè al Governatore della Banca d’Italia, Carli. Una lezione di memoria su quello che i due si erano detti a pranzo, di stile e di autorevolezza che pochi altri giornalisti italiani sono mai stati in grado di dare. Egli fu uno dei pochi personaggi della nostra stampa che poteva permettersi di stare alla pari, in taluni casi, però, persino di sovrastare, quelli che, in politica e in economia, reggevano le sorti del Paese.

Eugenio Scalfari non faceva solo del giornalismo. Era in grado di incidere sulla politica. E in quel periodo successivo alla nascita de La Repubblica, avvenuta il 14 gennaio 1976, lo dimostrò sin dalle prime battute. Un’intelligente campagna pubblicitaria preventiva, come non era mai stato fatto prima nel nostro Paese, e da lui personalmente gestita, la scelta del rivoluzionario formato tabloid, la qualità delle firme da lui chiamate in quell’avventura, i legami con un certo mondo imprenditoriale, soprattutto quello Fiat, e finanziario, su tutti la Banca d’Italia, ma anche culturale, sindacale e sociale, lanciarono quella nuova avventura giornalistico – politica che seguiva con continuità l’esperienza della nascita e della direzione de L’Espresso, da lui fondato 11 anni prima con Arrigo Benedetti.

Fu, però, soprattutto la stagione politica di quel tempo a lanciare La Repubblica nel firmamento del giornalismo. Una stagione che lui aveva fiutato per tempo, a partire dalla sua esperienza parlamentare durata dal 1968 al 1972. Un’esperienza un po’ forzata anche dalla necessità di evitare la condanna a 15 mesi per l’accusa di aver diffamato il generale De Lorenzo quale responsabile di un tentato colpo di stato nel 1964, e denominato Piano Solo. Ma Scalfari si sentiva stretto nel limitarsi ad alzare la mano in rappresentanza del gruppo del Partito Socialista Italiano e pensò bene ritagliarsi un ruolo proprio, del tutto autonomo.

Il destro glielo dettero  il sostegno al Compromesso storico e l’anticraxismo di cui La Repubblica divenne il principale alfiere. E’ probabile che al fondo ci siano state vecchie ruggini personali con Bettino Craxi risalenti al tempo del suo impegno politico nel Partito socialista. Ma quel che contava era il suo convinto sostegno alla linea berlingueriana che si provava a presentarsi quale via “democratica” del comunismo italiano, francese e spagnolo e, quindi, elemento di riforma e di rinnovamento. Una linea che non dispiaceva neppure ad una certa parte dell’apparato economico e produttivo della grande industria italiana interessato ad una gestione del conflitto sociale e di quello interno alle fabbriche.

Stando ai diari di Ettore Bernabei (vedi la presentazione che ne fa Piero Meucci in “Ettore Bernabei, il primato della politica” – edizioni Marsilio), qualcuno accarezzava l’idea del Compromesso storico, o almeno di una sua versione ridotta, per giungere alla nazionalizzazione dell’industria automobilistica italiana; ovviamente, pagandola ben più del valore di mercato. Ma Eugenio Scalfari stava anche molto attento a non compromettersi più di tanto e, certamente, La Repubblica non fu un giornale fiancheggiatore del Pci in senso stretto, bensì coltivò tutta un’area d’impegno politico culturale che contribuì a giungere ai risultati elettorali, pochi mesi dalla nascita de La Repubblica, che videro la Dc raccogliere attorno al 38%, ma seguita immediatamente dai comunisti con oltre il 33. Una situazione che giustificherà l’affermazione di Aldo Moro: “siamo in due vincitori, e due vincitori in una sola battaglia creano certamente dei problemi”.

Dopo l’uccisione di Moro, cominciò l’inversione del moto del pendolo che avrebbe portato Enrico Berlinguer a rompere la traettoria avviata all’indomani del golpe cileno del 1973. S’interruppe ogni forma di collaborazione con i democristiani sulla base di una “questione morale” che certamente non interessava solo la Dc, ma coinvolgeva anche i comunisti e tutto il sistema politico ed istituzionale oltre che quello economico . Scalfari seguì Berlinguer su questa linea nonostante ben sapesse che quella morale non fosse questione da gestire in maniera unidirezionale.

Con la fine della cosiddetta Prima repubblica, però, giunse pure l’inizio della sua parabola discendente, anche se l’addio definitivo dalla direzione del giornale da lui fondato avverrà solo nel 1996. Il suo impegno umano ed intellettuale diventerà sempre più un altro, quello che proprio non ti aspetteresti da uno disincantato e non credente come Eugenio Scalfari. Scriverà: “Il tema effettivo è ormai Dio. Non c’è assolutamente nient’altro. Dio non si riconosce e questo significa che quel formidabile Ente, teoricamente presente dovunque e comunque, in realtà ci lascia fuori dalla sua comprensione”.

Giancarlo Infante

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