Molte volte è la forza delle cose a determinare quello che, altrimenti, gli uomini non farebbero. Questo sembra stia valendo anche per l’introduzione di una legge elettorale d’impronta proporzionale.

Il disfacimento dei due blocchi contrapposti, già messi in crisi dall’arrivo sulla scena dei 5 Stelle, e dall’importante crescita nei consensi del partito di Giorgia Meloni, è stato ulteriormente accelerato anche dalla nascita di una miriade di gruppi e di sottogruppi parlamentari. La conclusione è che non si può più parlare di centrodestra e di centrosinistra. Come spesso accade le crepe si allargano nella realtà locale, e lo si vede proprio in questi giorni con la formazione delle liste elettorali delle prossime amministrative.

Non a caso, anche la terminologia è mutata. Sempre più frequentemente sentiamo parlare di “progressisti”, come fanno Letta e Conte, o di conservatori, come si esprime la leader di Fratelli d’Italia. La realtà è che, con l’attuale sistema elettorale basato su un bipartitismo che ha progressivamente perso senso, a partire dal definitivo allontanamento di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi, siamo in pieno clima di multipolarismo. Cosa che si è andata accentuando in un qualcosa che rasenta la confusione politica ed aggrava quella istituzionale. La reazione di quasi la metà degli elettori è quella dell’astensionismo convinto e continuato.

In questo contesto, il moto del pendolo che riguarda il sistema elettorale da adottare, a maggior ragione dopo che si è giunto a ridurre il numero dei parlamentari, sembra inevitabilmente virare verso lo sbocco in un metodo proporzionale. Da quel che si sa, anche le prime iniziali rigide posizioni di Enrico Letta, intenzionato a mantenere il sistema maggioritario, sarebbero oggetto di revisione.

Il centrodestra non ha solamente un problema di equilibri interni. Scardinati, prima, dal tracollo di Forza Italia che a mala pena resta oggi attorno all’8%. Poi, dal vento nelle vele giunto a sostenere il vascello di Giorgia Meloni che da tempo ha superato quello condotto da Matteo Salvini. Ma il vero problema per la eventuale ricostituzione elettorale del trio Berlusconi, Salvini e Meloni è costituito dall’Europa.

Non è più la stagione del nazionalismo. E su questo notevoli sono le distanze tra i tre e, presumibilmente, diverse le conseguenze che per loro ne potrebbero derivare. Particolarmente critica la situazione di Matteo Salvini. Il suo calo di consensi  lo sta ad indicare. E’ evidente come il cuore gli continui a battere in quella direzione, ma il capo della Lega non può certo sottovalutare i rischi legati alla salita a Palazzo Chigi di una coalizione fortemente improntata ad una deriva antieuropea, come sarebbe quella condizionata dal peso di  Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia. In gioco potrebbe finire tutta la struttura produttiva della Pianura Padana che guarda sostanzialmente alla Germania, sia come sbocco dei propri prodotti, sia come attività di subfornitura. Anche a seguito della crisi innescata dalla Covid-19, entrambe le due realtà economiche e produttive a cavallo delle Alpi orientali avvertono la necessità di rafforzare l’alleanza industriale e, quindi, l’avvio di una vera e propria «joint-production italo-tedesca» come ripetono tante voci del mondo imprenditoriale (CLICCA QUI).

Sul fronte contrapposto, per quanto riguarda i “progressisti”, è evidente che fino ad oggi abbiamo assistito ad un “fidanzamento” forzatamente provocato dalla fuoriuscita dal primo Governo Conte di Salvini, destinato a non trasformarsi in un vero e proprio matrimonio. Enrico Letta continua a parlare di “campo largo” anche se questo sembra ridotto al Pd e a poco altro. Nel “campo largo” Giuseppe Conte non sembra minimamente interessato ad entrare, così come Renzi e Calenda. Questi ultimi due sono assolutamente indisponibili, infatti, a partecipare ad ogni forma di coalizione elettorale con i  5 Stelle. I quali, a loro volta, sono consapevoli che, sia pure modificando linguaggio ed atteggiamenti, possono salvare almeno una parte del loro consenso in declino se restano distinti dal Pd.

In ogni caso, il “campo largo” prospettato da Letta cozza con due elementi che non ne favoriscono la nascita. Il primo richiama il metodo della dirigenza Pd. Essa continua a credere in una “vocazione maggioritaria”. Appena appena mitigata dalla constatazione che non si riesce ad andare poi molto il 20% e dai toni più garbati adottati da Enrico Letta. Ma nonostante le dure sconfitte patite nelle recenti elezioni regionali, e il ridursi a mantenere il controllo della sola Toscana ed Emilia Romagna, perché Campania e Puglia devono essere considerate a parte per il ruolo dei loro due Governatori, De Luca ed Emiliano, il Pd appare proprio restio ad avviare un cambio davvero sostanziale e a mettersi in ascolto piuttosto che continuare ad insistere con il fare il direttore d’orchestra … “stabile”.

Pertanto, stando a quanto oggi si coglie all’interno dei vertici dei partiti, il problema non è quello del cambio del sistema elettorale, ma solamente a quale tipo di proporzionale si giungerà. Gran parte del confronto è sulla cosiddetta soglia di sbarramento e sulla reintroduzione delle preferenze.

In ogni caso si tratterebbe di un salto di paradigma in grado di aprire la strada ad un processo vero di trasformazione del Paese. Abbiamo bisogno di una rigenerazione profonda. E questa può venire dall’introduzione di un metodo di voto che serva a far rinascere passione per la politica e per l’impegno pubblico. In modo tale che siano la società civile, quella culturale, quella dei gruppi intermedi a ridarci un “baricentro” in grado di reagire al degrado istituzionale, burocratico, amministrativo e antropologico in cui siamo stati portati da un sistema politico distante dalla realtà vera del corpo sociale. Solo attraverso la scomposizione dell’attuale quadro politico si potrebbe passare ad una stagione di ricomposizione il cui primo passaggio, nella nuova legislatura, potrebbe riguardare la necessaria riforma dei partiti.

E’ vero, infatti, che il meccanismo elettorale di per sé non costituisce la panacea per mali profondi ed antichi che non sono ancora mai stati affrontati. Ma è altrettanto vero che, in ogni caso, è assolutamente necessario andare oltre un sistema politico che non è stato in grado di sollecitare e sostenere un processo di rinnovamento. Questo può essere autentico solo se parte da un pieno coinvolgimento di tutte le forze competenti e attive che costituiscono gli elementi vivi del paese, progressivamente finiti distanti dalle dinamiche della politica e delle istituzioni.

Giancarlo Infante

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