I referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno 2025 hanno confermato una tendenza ormai consolidata: la disaffezione crescente degli italiani verso questo strumento di democrazia diretta. A parte la natura discutibile e talvolta ideologica dei quesiti sottoposti al voto, ciò che colpisce è la cronica difficoltà nel raggiungere il quorum e l’evidente disomogeneità territoriale della partecipazione.
Sembra essersi incrinato il rapporto tra cittadini e istituzioni, e lo stesso istituto referendario – pilastro della nostra Costituzione – pare oggi in profonda crisi di senso. Quando i padri costituenti inserirono il referendum abrogativo nella Costituzione repubblicana (art. 75), lo fecero con una visione ambiziosa: offrire ai cittadini uno strumento di controllo diretto sull’operato del legislatore. Non si trattava solo di votare ogni cinque anni per eleggere un Parlamento, ma di permettere al popolo – in casi specifici – di intervenire per cancellare norme ritenute ingiuste o superate. Per essere valido, il referendum doveva raggiungere il quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto, un vincolo pensato per rafforzare la legittimità dell’esito.
Il primo referendum abrogativo si tenne nel 1974 e riguardava la legge sul divorzio. Fu un momento fondativo della coscienza civile del Paese: con un’affluenza superiore all’87% e un netto “no” all’abrogazione, gli italiani dimostrarono maturità democratica. Anche negli anni successivi – dal nucleare all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti – i referendum hanno segnato passaggi cruciali della vita politica italiana. Ma quell’entusiasmo, oggi, sembra un ricordo sbiadito.
Declino di fiducia e crisi della rappresentanza
A partire dagli anni Duemila, il referendum abrogativo ha subito un logoramento progressivo. Colpa, innanzitutto, di una politica sempre più autoreferenziale e divisa, incapace di affrontare con serietà le questioni poste al voto. Non di rado, i quesiti referendari sono diventati strumenti tattici nelle mani di partiti o movimenti, usati per polarizzare il dibattito o per misurare il consenso su altri temi, spesso estranei al merito delle leggi da abrogare. Questo ha generato sfiducia e confusione nei cittadini, che sempre più spesso disertano le urne.
Alla base del calo di partecipazione c’è anche un senso diffuso di impotenza: molti italiani non credono più che il voto – sia esso politico o referendario – possa cambiare davvero qualcosa.
La complessità delle sfide contemporanee (crisi economica, transizione ecologica, geopolitica instabile) sembra sfuggire alla capacità di risposta del ceto politico. E il referendum, nato come strumento di semplificazione democratica, finisce per apparire come una liturgia stanca e inconcludente.
Italia divisa: partecipazione alta al Nord, deserto al Sud
Un altro aspetto rilevante – e spesso ignorato – è la profonda spaccatura geografica che emerge in ogni tornata referendaria. Al Centro-Nord si registra ancora una partecipazione accettabile, talvolta vicina al 40%, mentre al Sud e nelle Isole il quorum sembra ormai un miraggio. In certe province, meno di un elettore su quattro si reca alle urne. Questo divario non è solo politico, ma anche sociale e culturale: riflette una diversa relazione con le istituzioni, una diversa fiducia nello Stato e una diversa propensione alla cittadinanza attiva.
Nel Mezzogiorno pesa l’eredità di una lunga marginalizzazione, di un’insufficiente alfabetizzazione civica e di un senso di estraneità che, purtroppo, sembra acuirsi con ogni stagione elettorale. Se i cittadini percepiscono che nulla cambia – o che i propri bisogni non sono ascoltati – allora votare diventa un atto privo di significato. In queste condizioni, il referendum rischia di essere non solo uno strumento inefficace, ma anche divisivo, capace di accentuare la frattura tra un’Italia “partecipante” e una “distante”. Il referendum abrogativo, così come pensato nel 1948, è stato uno strumento prezioso e nobile. Ma la società italiana è cambiata radicalmente, e la democrazia necessita di nuove forme di partecipazione e rappresentanza.
Forse è tempo di ripensare questo istituto, senza nostalgie ma con coraggio riformatore, per restituire al popolo non solo il diritto di votare, ma anche – e soprattutto – la voglia di farlo.
Michele Rutigliano