La cerimonia ha avuto luogo venerdi sera, quando era notte in Europa, nell’Oval Office, il cui plafond era stato piuttosto pacchianamente ridecorato –  come ha tenuto a precisare il suo attuale inquilino –  “con oro a 24 carati”.  Lì, seduto alla sua scrivania, il Presidente degli Stati Uniti ha ringraziato Elon Musk, ritto accanto a lui,  per  l’attività da questi sino ad allora svolta come “funzionario speciale“ della Casa Bianca: una cerimonia dai toni stranamente più sobri del solito. Ma anche una cerimonia il cui significato è andato al di là della sua causa ufficiale, e  che ha segnato in maniera più che evidente la fine della prima fase – colma di reboanti proclami, di grandi aspettative e di ripetuti rinvii – del secondo quadriennio di Donald Trump al vertice degli Stati Uniti.

E’ stata una fase in cui Elon Musk, l’imprenditore di origine sudafricana, ha avuto un ruolo di grandissima visibilità, fin quasi a competere con quella del candidato da lui così riccamente finanziato. Ma è stato un ruolo il cui rapido esaurimento e la cui inevitabile conclusione erano peraltro ormai sotto gli occhi di tutti.  Per l’uomo più ricco del mondo si è trattato non solo da una forte delusione personale per la scoperta di mancare pressoché totalmente di capacità politica, ma anche da una obbligata presa d’atto del fatto – non poco interessante – che anche nelle società capitalistiche possono esistere dinamiche di mercato che limitano la forza bruta del danaro. Il crollo della domanda di Tesla, e i vandalismi contro i rivenditori e le stesse vetture in circolazione ne hanno dato prova innegabile.

Nel caso venuto venerdì sera alla sua naturale conclusione, però, molto significativo è apparso anche il forzato abbandono delle speranze e  delle ambizioni estremamente ampie che erano state nutrite non solo da parte di Musk, e da parte dell’altro membro della strana diarchia che era parsa formarsi all’inizio del mandato. Ambizioni ideologico-istituzionali che avevano trovato nuovo alimento nella insolita  coalizione di forze economiche attorno ad essi si era formata.

Subito dopo le elezioni,  l’abbandono delle ambizioni di rilanciare l’America nel mondo, cioè le ambizioni del neo-eletto, è stato strettamente collegato al fallimento di alcune sue specifiche promesse. In primo luogo, la mancata conclusione della guerra in Ucraina nel breve giro – come garantito – di qualche giorno dopo il proprio avvento al potere. E poi il non essere riuscito ad evitare, nella tragedia di Gaza, l’allineamento pedissequo con la parte che ha scelto di sfidare i sentimenti di umanità profondamente radicati nel mondo cristiano.

L’uomo dal ciuffo biondo e dal mento sempre più mussolinianamente proteso in fuori, ha insomma fallito quasi quanto Musk, scegliendo di essere temuto nel tentativo di riaffermare l’egemonia  americana nel mondo, e cercando di determinare un allontanamento di Mosca dalla Cina, in cambio di qualche patetica blandizia, e di qualche promessa economica, che l’America non è comunque più in grado di mantenere.

Al contrario, il mondo intero ha potuto vedere una estremamente significativa sfilata militare a Mosca, sulla Piazza Rossa. Una sfilata in cui spiccava la presenza di forze che portavano l’uniforme di alcuni paesi asiatici. Forze principalmente cinesi, ma non solo. E che, soprattutto, tutti sapevano essere presenti a garanzia della Russia minacciata dall’espansione della Nato verso oriente. E ciò poco più di un secolo dopo gli eventi del 1899-1901: un biennio terribilmente umiliante per la Cina, quando, per schiacciare la rivolta dei boxers sette nazioni europee avevano conquistato Pechino, e inviato al mondo intero il segnale della pretesa supremazia dell’uomo bianco su tutte le altre razze della Terra.

E non c’era solo questo, in quella cerimonia conclusiva dei primi quattro mesi dell’occupazione della Casa Bianca da parte di Trump e della inquietante coalizione di potentati economici che si era impadronita della sua candidatura e della sua campagna elettorale. Che infatti era stata, anche nei contenuti, ben differente da quella del 2016!  Anche dalla necessità, per il  nuovo Presidente, di continui ed inconcludenti cambiamenti di passo o addirittura di veri e propri  dietro-front trapelava evidente la manifesta sfiducia delle autorità russe – Putin in testa – nell’affidabilità, consule Trump , della potenza che, a partire dagli anni quaranta, l’America aveva invece potuto vantare.

Non c’era solo la mancata conclusione della guerra fratricida in Ucraina. La prima fase del mandato è stata infatti segnata anche dalla incapacità a mantenere l’impegno sulla riduzione del deficit federale, così come sull’effetto magico che avrebbero dovuto avere i dazi doganali, alla cui imposizione avevano immediatamente fatto seguito una delle più ingloriose serie di marce indietro nella storia.

Musk, venerdì notte ha dunque abbandonato il suo ruolo di “Doge”. Un passo – si noti – cui non ha fatto seguito la nomina al suo posto di un’altra personalità, né – fatto ancora più significativo – la successione da parte di un “vice”, figura che non è mai esistita, e che non si pensava dovesse esistere. Il suo – quello di “funzionario speciale“ – non era un job burocratico-amministrativo,  era un ruolo politico, che aveva senso, significato e potere solo finché era lui ad occuparlo. Ed oggi che egli è comunque rimasto accanto a Trump – come entrambi hanno tenuto a precisare – è un ruolo fortemente diminuito.

Musk non scompare dalla scena politica, anche se appare in forte declino, sotto il profilo del potere e delle prospettive.  E ciò anche se la sua missione al Department Of Government Efficiency è sostanzialmente fallita. Aveva promesso di ridurre di un terzo, cioè di 2000 miliardi di dollari gli “sprechi” federali, e venerdì sera ha potuto vantare solo 160 miliardi di dollari di tagli, e avanzare la previsione di altri mille miliardi di “risparmi”, entro il 2026 come effetto dilazionato della propria azione.

Quello che scompare davvero, invece, è il convincimento che per lui tutto fosse possibile. L’idea, piuttosto diffusa subito dopo le elezioni, che egli – pur essendo non-american born – potesse un giorno diventare eleggibile alla Presidenza (magari come sudafricano perseguitato dai neri). Oppure, che egli potesse avere accesso ad un nuovo tipo di vertice del potere, quello di Doge, appunto:  cruciale in un’America del futuro governata – come fu un tempo la Repubblica di Venezia – non dagli eletti del popolo, ma dai suoi grandi mercanti operanti su scala mondiale.

Nella Stanza Ovale l’atmosfera che si respirava era alla fine quella dell’abbandono delle speranze più eversive della “squadra trumpiana”. Ed un’atmosfera di abbandono che – guarda caso – seguiva da vicino la smentita, da parte dello stesso Trump, dell’ipotesi da lui stesso precedentemente ventilata, di una trasformazione istituzionale dell’America, che gli consentisse di accedere ad un terzo Mandato.

Tramp e Musk restano quindi amici, sodali politici e collaboratori, anche se non costituiscono  più quella strana diarchia che si era profilata subito dopo la vittoria elettorale, l’insediamento, la cancellazione delle condanne, le pretese sul Canada, eccetera.  Ipotesi certo improbabile, ma che accresceva l’ambiguità sulle questioni istituzionali, e che aveva suscitato serie preoccupazioni per il destino della democrazia americana.

Musk potrà ancora contare sui grandi contratti della Nasa a SpaceX. Però, uno strano silenzio è caduto sul progetto della colonizzazione di Marte, ed altre ipotesi a lungo termine, che forse appaiono meno verosimili all’orizzonte temporale di Trump, che ha 25 anni più di Musk. E non è solo la questione dei rapporti con la Cina, dove la Tesla viene prodotta, che appare meno delicata e meno significativa; c’è anche quella della forte opposizione  dell’imprenditore in settori tecnologici estremamente avanzati alla politica di Trump contro l’immigrazione, che coinvolge anche quella qualificata.

Non c’è stata quindi una rottura, ma profili e obiettivi sembrano in una qualche misura diversificarsi. E comunque è apparso chiaro che Musk non potrà più tendere ad un rilievo politico comparabile a quello del Presidente, come era parso per un momento. Ma anche le possibilità di Trump appaiono indebolite. Basta constatare quanto poco le risposte del Canada e del Messico alle sue pretese siano state poco influenzate dalle ragioni egemoniche che Trump aveva avanzato. E chiaramente sovrastimato

Il che è perfettamente logico. Musk non ha gli impegni politici di Trump e non neanche il capitale politico che viene al Presidente dal sostegno di un’ampia fascia della popolazione più disagiata.

Ma se Musk piange, Trump – a conti fatti – ha anche lui poche ragioni per ridere. L’America resta una democrazia con le tipiche scadenze della vita e della routine politica. Anche se le elezioni di midterm restano lontane, ci sono molte carriere politiche che conteranno sui loro futuri risultati,  e che hanno giocato nella ridottissima maggioranza strappata dai Repubblicani alla Camera dei Rappresentanti. Cosa che potrebbe non accadere la prossima volta.

Giuseppe Sacco

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