Il 25 marzo del prossimo anno si terrà la giornata nazionale “Dantedì” a 700 anni dalla scomparsa di uno dei più importanti simboli della nostra Storia, della cultura italiana, della nostra lingua.

Meno male che non è stato chiamato “Danteday” come ci si sarebbe potuto aspettare per i tempi che corrono e per come anche la politica tende a piegare e a snaturate il senso e il significato delle parole.

In realtà, la nostra lingua costituisce uno dei tanti”problemi non sciolti, ma solo accantonati” in un paese che vive secondo un “ricorrente ondeggiare” (1).

Essa, in realtà, ha bisogno di cure e di un rinnovato impegno corale per rafforzarla e sostenerla. La stessa cura che sarebbe da dedicare alla Storia, alle tradizioni, agli usi, alla cultura, sia a quella aulica, sia a quella sapienziale, entrambe in crisi profonda.

Si tratta di dare corso ad un processo che, in definitiva, partecipi ad una nuova sintesi evolutiva dei fenomeni esistenziali collettivi, delle relazioni interpersonali, e quindi sociali, che caratterizzano la nostra comunità nazionale.

Il linguaggio ci “rivela”

Attraverso le capacità grammaticali, semantiche ed espressive connotiamo noi stessi nell’immediatezza. Riveliamo radici ed ascendenze, oltre che dimostrare la partecipazione, e la qualità di essa, a quei processi condivisi di formazione d’opinione, di resilienza o di abbandono a trasformazioni evolutive, o regressive.

Esse si disvelano nell’utilizzo della terminologia o attraverso l’uso di espressioni simboliche o figurative, del gergo, nell’abbandono indifeso o, al contrario, nella sapiente contaminazione dialettale o di altre lingue.

Richiamano altro, oltre che il dato linguistico preso per sé stesso. Quel qualcosa di più profondo afferente a un’intera visione della vita, al nesso con gli altri, al porsi più o meno in adeguata correlazione, o alterità, con il resto dell’umanità che ci circonda.

Il linguaggio, dunque, rappresenta la nostra essenza, profetizza la nostra sostanza, dà corpo alla profondità del nostro io, rivela potenzialità e lacune, ardimenti ed incertezze, consistenza nella capacità relazionale. E’ cartina tornasole dell’esistenza di risorse, di comunicatività, di ricchezza o povertà di analisi, di carisma o di subalternità, di esercizio di gregariato o di guida, oltre che di presenza di una visione organica e complessa della vita, ovvero parziale o approssimativa.

Quel che vale per ciascuno di noi preso singolarmente ha una forza altrettanto conclamata per quell’ “essere” pubblico che chiamiamo società.

Pure il linguaggio, le forme idiomatiche, i proverbi, i gesti espressivi, più o meno consapevoli che siano, concorrono a connotare quella che definiamo identità di un popolo e di una nazione.

La lingua è fenomeno sociale

La lingua e le regole che ne presiedono formazione e sviluppo, costituiscono, infatti, un fenomeno sociale perché collettivo. Quelle regole partecipano, condizionate e condizionanti, alla continua evoluzione di processi di sedimentazione, sovrapposizione, invenzione, meticciato con altre componenti linguistiche, tutte collocate all’interno di un percorso che riguarda un intero popolo, un’intera nazione. Non a caso, la varietà fonetica e gergale, l’accompagnamento di posture e atteggiamenti corporali, confermano l’altra ricchezza che, nel caso dell’Italia, sta nell’assemblaggio di tante storie, persino di separatezze e specificità geografiche e popolari.

Il linguaggio è in continua evoluzione. Assorbe ed esporta, da e verso altre lingue. Subisce l’influenza del mutare delle relazioni umane, economiche, dello sviluppo tecnologico, dell’allargamento della conoscenza umanistico – letteraria e scientifica e, sicuramente, di quei rapporti di forza geopolitici lungo cui evolvono gli scenari internazionali.

Lungo la Penisola, c’è stata l’era della preminenza del latino, e del greco sottostate. Poi, a seguire, l’influenza delle lingue barbare, in particolare quella dei longobardi, dello spagnolo, del francese e dell’inglese. Ancora si coglie in Sicilia quella, persino, dell’arabo.

In molti casi, la superiorità di questa o di quella lingua, una tale abilità pervasiva, è indotta da una serie di fattori che non hanno a che fare esclusivamente con il dato linguistico, ma trova giustificazione nel carattere innovativo che una realtà eminente rispetto alle altre riesce ad imporre all’indomani della vittoria sui campi di battaglia, nella condotta delle relazioni umane, nei traffici, nell’evoluzione letteraria, così come in quella scientifica e tecnologica e nell’imposizione di modelli di vita e di costume.

Talvolta, la prestanza è più di natura culturale ed estetica. In ogni caso, sostenuta da consuetudini per inerzia perpetratesi, persino a prescindere da una esplicita volontà decisionale. E’ il caso del latino nella medicina e dell’italiano nell’idioma dell’arte, in generale, e della musica, in particolare. Lo è per il francese nell’alta cucina e nell’alta moda. Dell’inglese, in molte specialità sportive e nella finanza, nel tecnologico, nelle forme espressive moderne, come dimostrano il cinema o l’interconnessione digitale.

Le diverse dinamiche proprie di una lingua o di un’altra rivelano differenti duttilità, concretezze, opportunità,  sagacia. “Parlo in spagnolo a Dio, in italiano alle donne, in francese agli uomini e in tedesco al mio cavallo”. Questa la plastica conferma che ci dà Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole, giacché i suoi incommensurabili, frastagliati ed anche complessi domini andavano dalle Americhe alla Germania.

Gli antefatti storici e la mancanza di una “politica” linguistica

Le condizioni storiche, economiche, politiche e culturali dell’Italia nel corso dei secoli, durante i quali si è venuta formando la nostra lingua, articolatasi in quella che è stata definita sia “preminentemente  letteraria”, sia “più scritta che parlata”( 2 ) e che sin dal primo imporsi del “volgare”, grazie a Dante, Petrarca e Boccaccio si è andata strutturando in un modo piramidale con la sua parte “illustre”, quella “mezzana” e quella “umile” ( 3 ), hanno fatto sì che, solo grazie alla Prima Guerra mondiale, con il suo rimescolio di genti costrette alle armi, alla successiva sempre più diffusa scolarizzazione e, finalmente, all’arrivo della televisione, l’italiano avesse una diffusione che non riguardasse più solo parti limitate della nostra popolazione, cioè quella dal censo più elevato.

Parliamo di un processo di acculturazione diffuso, dunque, ma relativamente giovane, se messo in comparazione con quelli di altre nazioni. Strettamente connesso a quei fatti sociali determinati che hanno preso corso dall’Unità e dal progressivo formarsi di un’identità nazionale, senza peraltro veder giungere la conclusione esaustiva di un reale agglutinamento e di una piena, totale condivisione.

I secoli del ‘700 e dell’800 sono stati caratterizzati dalla nascita degli stati moderni che, guarda caso, si definivano anche attraverso un’unità linguistica.

E’ vero che non mancarono anche in Italia quanti si posero il problema del rapporto della lingua con il carattere nazionale e il processo che avrebbe reso possibile la creazione di uno stato nazionale. Tra questi un posto di rilievo lo meritano certamente l’Alfieri e il Foscolo. Quest’ultimo pensava: “ Ogni nazione ha una lingua. Ogni letterato  deve parlare alla sua nazione  con la lingua patria” ( 4 ). In quel momento, però, la Patria non era Nazione, e neppure Stato, e l’unico elemento suo comune era rappresentato dall’italiano dei letterati.

Inevitabile che quanto non poteva ancora essere fatto in termini politici dovesse venir surrogato dalla cultura e dall’arte. Così, mentre l’Italia restava solo “un’espressione geografica” l’italianità era sostenuta da pensatori e scrittori, come il Manzoni, e musicisti, come Giuseppe Verdi.

E’ stato dunque facile per qualcuno sostenere che, dal momento dell’unificazione di buona parte del Paese, cioè dal 1860,  fino a ben dentro il ‘900, mancò una politica linguistica nazionale. Soprattutto, non si assistè ad un impegno di natura realmente popolare in quella direzione.  Colpisce invece come, già nel 1539, Francesco I fosse nelle condizioni di estendere l’uso di un’unica lingua a tutta la struttura statale della Francia.

Insomma, dalle nostre parti, già subito dopo la prima fase dell’Unità nazionale si finì per tradire quel famoso appello del D’Azeglio, “ fatta l’Italia, facciamo gli italiani”, e non certo perché rivelava da solo la natura verticistica, se non addirittura colonizzatrice, dell’unificazione.

E’ vero che nei governi post unitari non sono mai mancate personalità d’eccezionale livello alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione. Su tutte spicca la figura del De Sanctis, ministro sia con Cavour, sia con Ricasoli. Siamo però in una fase in cui è sul censo che ancora si basano le dinamiche sociali e il diritto di voto. I gruppi dirigenti, chiaramente, non mostrano alcuna intenzione di superare quell’immobilismo che tanto caratterizza un’Italia tutta rurale e nella quale persino l’abbozzo delle riforme cavouriane suscita scalpore e contrarietà.

Tullio De Mauro offre un quadro esaurientemente esplicativo delle condizioni del Paese al momento dell’entrata nel primo conflitto mondiale: solamente il 3% della popolazione utilizzava la cosiddetta lingua letteraria, il 97% si affidava al dialetto ( 5 ).

La forza e la gracilità dell’italiano

Possiamo trovare in questo quadro la conferma del perché il nostro italiano resti tanto forte e, al tempo stesso, tanto gracile e suscettibile di subire molte sorti di svilimento, depauperamento, obnubilazione? In ogni caso, senza sottovalutare la complicità dell’allentamento della tensione scolastica e formativa, di una qualche insufficienza che riguarda i comunicatori, dell’influenza del linguaggio pubblicitario che, senza andare tanto per il sottile, si presta ad ogni gioco manipolatorio della lingua e all’utilizzazione di anglismi perché, così facendo, si pensa di amplificare la forza del messaggio.

Questi ed altri motivi possono contribuire a spiegarci come mai il linguaggio degli italiani nella vita di tutti i giorni, la lettura dei giornali, l’ascolto della televisione o della gente che incontriamo quotidianamente sull’autobus o al bar, in questa ultima interrelazione cogliamo l’influenza degli strumenti sui fruitori, dimostrino quanto l’attuale condizione della lingua italiana sia rivelatrice di una fase critica più generale attraversata dall’intera nostra società.

In qualche modo, quella che appare come una trasformazione, secondo alcuni un impoverimento e la tendenza all’omologazione attorno ad un numero di espressioni sempre più limitato, del nostro parlare, dei nostri scritti, del nostro esprimerci in generale, si dimostra in diretto collegamento con quell’altrettanto forte impoverimento più ampio che si può cogliere nel vivere civile, nella passione pubblica, nelle presenza delle istituzioni, nelle relazioni interpersonali.

Come sostenere il processo di sostegno alla nostra lingua

E’ dunque necessario porsi il quesito se non sia giunto il momento d’individuare le modalità che possano consentire l’avvio di un processo di sostegno alla nostra lingua.

Essa non deve affrontare solamente la questione degli anglismi, spesso pacchiani e in grado di confermare, assieme, la scarsa conoscenza sia dell’inglese, sia dell’italiano da parte di chi ha la tendenza a farne maggior uso. Siamo giunti al punto che qualcuno parla di “itanglese” ( 6 ).

Non si tratta di tornare all’idea imperativa mussoliniana. Quella funzionale anche alla cancellazione dell’identità d’interi popoli non italiani presenti nella Penisola. Essa, infatti, infarcita anche di taluni suoi aspetti ridicolissimi, si rivelò carica di un’inaccettabile violenza, pratica e psicologica, in quelle zone del Paese dove vivevano, e vivono, minoranze linguistiche le quali meritano non solo il massimo rispetto, ma una continua cura di tutto ciò che significa inclusione e sostegno.

L’ “italianizzazione” d’imperio del linguaggio costituiva, a conferma della stretta sua relazione anche con una visione ideologica totalitaria, un aspetto fondamentale per la fascistizzazione di un intero Paese. Traduceva l’obiettivo di dare un valore assoluto allo Stato e, dunque, imporre anche sul piano espressivo un’unicità di sentire e di sentimenti, intollerante verso la presenza di altro.

Neppure si tratta di tornare alla suggestione prospettata dal cosiddetto “purismo”, la corrente letteraria sviluppatasi alla fine del ‘700, fine a se stesso. L’obiettivo, semmai, è l’inserimento della questione della nostra lingua all’interno di un ragionamento che riguarda  la più ampia “dolorosa fragilità” del nostro Paese ( 7 ).

Noi che più di altri popoli, sotto l’ondata della globalizzazione, ci ritroviamo nel pieno della cosiddetta “fine del sociale” ( 8 ), nel momento in cui constatiamo la necessità da parte degli italiani di riscoprire e riconnettere quei fili che affondano nella “profondità di tanti passati” ( 9 ), non possiamo non porci il problema di ciò che è fondamentale per farci interloquire fra di noi e rinverdire quelle pietre miliari condivise, indispensabili ad un autentico comunicare.  Si tratta di recuperare la dimensione più profonda che è quella “comunitaria” e, dunque, constatare come sia indispensabile ritrovarci intorno a valori e consuetudini, oltre che ai tanti patrimoni affastellati in abbondanza nel nostro passato che nel linguaggio trovano non solo celebrazione, ma pure continuità e riverbero.

Si tratta del pensare a ricomporre un percorso compartecipe e coinvolgente. Cogliere, insomma, nel concreto che “ la lingua non è una realtà aggiunta alla storia, ma è storia” ( 10 ).

Se questo è vero, significa che parliamo di un qualcosa che ci riguarda quotidianamente, la quale, lo ripeto ancora una volta, ci connota sia nella dimensione personale, sia in quella pubblica.

E’questione richiamante, quindi, le responsabilità di una Politica “alta”, quella decisa a collocarsi nei processi che riguardano un’intera comunità. Da non ridurre a questione minore e da lasciare  in balia di quei due incombenti, ostili elementi che il Devoto individua nella “insensibilità civica e la pressione di sistemi stranieri” ( 11 ).

La riscoperta dei valori comuni: un Patto per l’italiano

Dovremmo  pensare ad un grande processo di riscoperta dei valori e della sostanza comune che ci legano e ci identificano dalle Alpi alle coste del Mediterraneo. Ad un grande Patto democratico e d’inclusione che riguardi anche il nostro italiano.

Ad esso possono per prime partecipare con convincimento, dedizione e continuità tutte le componenti del mondo della scuola.

E’ quello sicuramente l’ambito in cui svolgerlo e concretizzarlo in maniera preminente, in sintonia e sinergia con un analogo processo che dovrebbe riguardare il linguaggio e le espressioni utilizzate dalla Pubblica amministrazione, dalle istituzioni più in generale, persino quelle delle leggi.

Fondamentale è il coinvolgimento della Rai. Essa svolge le funzioni del Servizio pubblico e, con il resto del sistema radiotelevisivo, tanto influisce sul gergo comunemente utilizzato il quale tanto ha concorso e concorre a favorire le manipolazioni linguistiche, il restringimento del numero delle parole utilizzate, la difficoltà nell’arricchire l’espressione con l’uso di sinonimi, piuttosto che cadere nel continuo uso maccheronico di termini inglesi, tra l’altro spesso neppure conosciuti dalla maggioranza degli italiani.

Se davvero la Rai è la più importante industria culturale del Paese, vuol dire che il suo carico di responsabilità aumenta e che questa sua caratteristica, da sostenere ed ampliare, non può essere ridotta a mera dimensione finanziaria o vederla condizionata esclusivamente dall’audience. Anche perché il “mezzo” è sempre più forte di chi lo utilizza o ne fruisce.

Il Patto dovrebbe vedere la partecipazione degli ordini professionali, a partire da quello dei giornalisti, delle categorie, dalle rappresentanze sociali e culturali.

Un’opera di “persuasione morale” ( la corretta traduzione di “moral suasion” che tanto ci piace utilizzare) può essere indirizzata anche nei confronti del mondo della pubblicità che tanto influisce nel premere per gli acquisti degli italiani.

Il Patto, dunque, non dovrebbe essere visto in termini impositivi, anche se un suo forte radicamento nel sistema scolastico ed universitario e la partecipazione delle entità pubbliche, sulla base di un organico processo pubblico di rafforzamento dell’italiano renderebbe sempre più stridente l’inutile abbandono a forme espressive e termini del tutto avulsi dal nostro sentire e da ciò che ci definisce.

Giancarlo Infante

Note 

( 1 ) Italiani senza Italia – Aldo Schiavone, Einaudi 1998

( 2 ) Italiano. Antico e Nuovo – Gianluigi Beccaria, Garzanti 1992

( 3 ) Il Linguaggio d’Italia – Giacomo Devoto, Rizzoli 1997

( 4 ) Foscolo – Opere scelte, Voghera 1829

( 5 ) Storia linguistica dell’Italia Unita- Tullio De Mauro, Laterza 1963

( 6 ) Italiano. Antico e Nuovo – Gianluigi Beccaria, Garzanti 1992

( 7 ) Italiani senza Italia – Aldo Schiavone, Einaudi 1998

( 8 ) La globalizzazione e la fine del sociale – Alain Touraine, Il Saggiatore 2004

( 9 ) Italiani senza Italia – Aldo Schiavone, Einaudi 1998

( 10 ) Lingua nella storia e storia nella lingua: tra indoeuropeo e Italia pre- romana – Aldo L. Prosdocimi , Lingua e                 Storia, Paideia 1987

( 11 ) Il Linguaggio d’Italia – Giacomo Devoto, Rizzoli 1997

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