L’intervento che pubblichiamo a firma di Gianni Fontana costituisce una serie di sue riflessioni emerse nel corso della elaborazione del nostro Manifesto.

 

…Noi siamo il centro di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi, e insieme siamo la sinistra di Giuseppe Dossetti e di Aldo Moro, e insieme, se volete, siamo persino la destra di Gonella e di Antonio Segni: degli uomini che fecero più grande e più giusta e più solidale l’Italia senza bisogno di definizioni di schieramento…. “ 

Perché “Insieme”? Perché ‘da soli’ non si va da nessuna parte.

 Prima di tutto, perché non se ne ha la forza. In democrazia, non vince la qualità: vince la quantità, cioè il consenso. E il consenso può premiare proposte con o senza qualità. Per questa ragione, è fondamentale riuscire a dar vita a proposte politiche di qualità, che sappiano, però, conquistare il consenso della maggioranza dei cittadini.

E solo mettendo insieme le coscienze, le intelligenze e le energie migliori è possibile riuscirci.

E poi perché la Globalizzazione non consente isolazionismi. Né di pensiero né di azione. Per dirla con John Donne e Thomas Merton: “Nessun uomo è un’isola”.

Dalla caduta del Muro di Berlino, viviamo in un sistema di vasi comunicanti che rende anacronistica e impraticabile qualsiasi visione ‘sovranista’ e dannosa, più ancora che inutile, qualunque politica ‘autarchica’.

Per l’Oceano Globalizzazione servono ‘corazzate’, non ‘scialuppe’

La globalizzazione è un Oceano perennemente in tempesta. La ‘corazzata’ Europa fatica a navigarlo e fatica a sostenere il confronto con supercorazzate come Usa, Cina e Russia.

Illudersi che la ‘scialuppa’ Italia – da sola – possa sopravvivere in quell’Oceano, riuscendo, addirittura, ad avere la meglio su quelle supercorazzate, non è politica: è follia.

Sovranismi e populismi alimentano paura e problemi

Sovranismi e populismi sono risposte alla paura, non ai problemi. Due visioni che lucrano i loro consensi sulla paura e non hanno alcuna intenzione di risolvere i problemi, perché risolvere i problemi rappresenterebbe il loro suicidio politico: la paura svanirebbe e, con essa, anche i consensi.

Tutto questo ci dice che esiste un solo modo di arginare sovranisti e populisti: presentare proposte serie, credibili e praticabili, tali da riuscire ad avviare a soluzione – nel medio periodo, dal momento che “nel lungo periodo, come diceva Keynes – siamo tutti morti” – almeno i problemi più rilevanti e urgenti.

Servono visioni d’insieme

La globalizzazione ha globalizzato i problemi ma non le soluzioni. I problemi sono diventati sempre più grandi e le soluzioni, sempre più piccole e inefficaci. È del tutto evidente che soluzioni locali non sono in grado di risolvere problemi globali, quali l’emergenza ambientale o la grande recessione, scatenata dalla crisi dei subprime USA del 2006.

Questo, però, non significa che ciascuno di noi non debba fare la propria parte. Significa, semplicemente, che non basta più che ciascuno faccia la propria parte. Questa è una condizione necessaria ma non sufficiente.

Ciascuno deve fare la propria parte, ma questa parte dev’essere, a sua volta, parte di una visione d’insieme. Visione che, per alcuni problemi (es. l’economia) non può non essere europea, e per altri (es. l’ambiente) non può non essere internazionale.

 Soluzioni locali: tessere di mosaico

Oggi le soluzioni locali hanno senso solo se costituiscono altrettante tessere di un mosaico: un insieme che assume senso e valore se le tessere ci sono tutte e se ognuna è collocata al posto giusto.

Noi crediamo che il cuore di questo mosaico si chiami Europa. E siamo fermamente convinti che, al di fuori del ‘mosaico’ Europa, non ci sia futuro per la ‘tessera’ Italia.

Non l’Europa com’è ma l’Europa come avrebbe dovuto essere

Anche sul termine Europa, però, bisogna intendersi. Non pensiamo all’Europa com’è: miope, asfittica, divisa nella sterile contabilità dei mille interessi particolari, e incapace di visione e prospettiva comuni.

Pensiamo all’Europa come avrebbe dovuto essere: libera, aperta, lungimirante, coraggiosa.

Un’Europa dei valori e dei diritti, nella quale è fondamentale essere più presenti, più credibili e più autorevoli, sia per essere più forti all’interno dell’Unione che per rendere l’Unione più forte nel confronto con le altre potenze.

Crisi: sintomi locali, cause globali

Emergenze come ambiente, disuguaglianze economiche e sociali, disoccupazione, povertà, pensioni, sanità, welfare, migrazioni, nuove schiavitù – solo per ricordare le più rilevanti – non sono che effetti locali di problemi globali.

Per affrontarle, occorre agire su un doppio canale: localmente, per combattere i ‘sintomi’ della ‘malattia’; globalmente, per combatterne le ‘cause’.

Come con una polmonite, non basta ‘abbassare la febbre’, occorre ‘debellare il virus’ che la causa, altrimenti la febbre tornerà a salire e i rischi per la ‘salute’ aumenteranno.

Ripensare ‘sovranità’ e ‘autonomia’

Il sistema di vasi comunicanti della Globalizzazione rappresenta un punto di non ritorno e obbliga tutti a ripensare concetti quali ‘sovranità’ e ‘autonomia’.

Sovranità e autonomia, infatti, appartengono al passato, né più né meno che ‘Polis’, ‘Comuni’ o ‘Signorie’. Concetti importanti, dai quali non è possibile prescindere per definire correttamente la strada che ci ha condotti fino qui ma che non possono essere utilizzati per immaginare né la strada del presente né quella del futuro.

Nel modo nel quale le abbiamo intese fino alla vigilia dei due conflitti mondiali, sovranità e autonomia non hanno più senso. Sono state ferite a morte a Yalta e spazzate, definitivamente, via a Berlino, quando il Muro è caduto.

Nell’era dello strapotere del turbo-capitalismo finanziario – inafferrabile e, dunque, impossibile da governare – ma, soprattutto, di quella che Emanuele Severino[1] ha definito l’inevitabilità del passaggio dalla gestione politica a quella tecnico-scientifica dei processi politici, parole come ‘sovranità’ e ‘autonomia’ perdono, completamente, significato e ‘potere’.

Affascinano, è vero. Ma come affascina il vagheggiamento romantico verso stagioni irrimediabilmente tramontate, delle quali la memoria ci restituisce immagini idealizzate. “Tutto in lontananza diventa poesia”, scriveva Novalis, ma nostalgia e poesia non sono né possono essere categorie, strumenti od obiettivi della politica.

Tutti insieme?

Quando diciamo “Insieme” intendiamo tutti insieme? No, non tutti, naturalmente. Per definizione, un partito incarna una parte.

Quale parte? La parte di coloro i quali si riconoscono nello stesso insieme di valori.

Quali valori? I valori cristiani. Centralità della persona; primato della coscienza; pace, libertà, giustizia; equità, solidarietà, pari opportunità, attenzione ai più deboli: donne, bambini, anziani, malati, poveri, ma anche categorie e aree sociali e geografiche svantaggiate. Quegli ‘ultimi’ che – come ha ricordato, recentemente, Papa Francesco[2] – “Gesù ci chiede di amare e rialzare”.

Equità, non uguaglianza

Se parliamo di equità e non di uguaglianza, è perché, al contrario di quanto sembra, l’uguaglianza non è una categoria democratica. Dando a tutti le stesse cose, infatti, trattiamo tutti da uguali ma non li rendiamo affatto tutti uguali, dal momento che non intacchiamo le differenze, non riduciamo le distanze. Regalando dieci centimetri di altezza a tutti gli esseri umani – ad esempio – i nani sarebbero un po’ meno nani, è vero, ma i giganti diventerebbero ancora più giganti. E le diseguaglianze rimarrebbero.

C’è solo una soluzione: chi ha di meno deve ricevere di più, e chi ha di più deve dare di più: questa è la via cristiana alla democrazia. La nostra via.

La “grande frattura”

Viviamo in un mondo nel quale 26 persone – persone reali, con tanto di nome e cognome – posseggono tanta ricchezza quanta 3,8 miliardi di persone: la metà più povera del pianeta; un mondo nel quale l’1% della popolazione detiene il 99% della ricchezza, mentre il 99% della popolazione è costretto a sopravvivere dividendosi l’1% della ricchezza. È quella che Joseph Stiglitz chiama “la grande frattura”. Una frattura che continua ad aumentare, anno dopo anno. La domanda è: quanto ancora il pianeta potrà sopportare livelli simili di diseguaglianza, prima di esplodere?

Equità significa dare di più a chi ha di meno, concorrere a ridurre le diseguaglianze e costruire una società più equa e più giusta, che possa, finalmente, tornare a crescere e a sperare in un futuro davvero degno di questo nome.

I soldi ci sono. Basta andarli a prendere

‘Non ci sono i soldi’, si replica. Non è vero. I soldi ci sono. E si sa anche dove sono. L’unica cosa che continua a mancare è la volontà di andarli a prendere. 32 condoni in 34 anni la dicono lunga sulla non volontà delle cosiddette classi dirigenti di combattere uno dei due cancri mortali (l’altro è la corruzione) che devastano il nostro Paese: l’evasione fiscale. Nessuno si decide a farlo per paura di perdere voti. E, così, si spremono sempre di più i ‘soliti noti’, devastando la classe media, senza, peraltro, riuscire a portare il Paese fuori dalla crisi, la quale – al contrario – è diventata una condizione permanente. Una politica inaccettabile. Sia dal punto di vista dell’etica cristiana che di quella democratica.

Dove troviamo i soldi? Nella cassaforte dell’evasione fiscale. Facendo una media tra le varie stime, ogni anno in Italia, mancano all’appello più di 170 miliardi di euro. Quasi 500 milioni al giorno. Questo per quanto riguarda l’evasione. L’elusione – per definizione – è impossibile da quantificare.

Un diverso modello di sviluppo ‘eco’ e ‘socio’-compatibile

Se – come vogliono sia l’etica cristiana che quella della Carta Costituzionale (Art. 53) – ognuno desse ciò che deve dare, avremmo tutto ciò di cui c’è bisogno per famiglie, lavoro, sanità, pensioni, welfare, istruzione, università, ricerca scientifica…

Per parafrasare ciò che Seneca dice a proposito del tempo: non è che abbiamo pochi soldi, è che ne sprechiamo troppi, rinunciando, persino, a riscuotere il dovuto.

Combattiamo seriamente l’evasione fiscale – le tecnologie di cui disponiamo ce lo consentono: non ci sono più scuse – e troveremo le risorse necessarie a dar vita ad un diverso modello di sviluppo: uno sviluppo sia ‘eco’ che ‘socio’-compatibile, in grado di rimettere al centro la persona e fare, finalmente, di lei un fine e non un mezzo.

Le parole sono pietre

O le parole sono pietre – nel senso che hanno peso e solidità e che, su di esse, è possibile costruire – o non sono niente.

Per politica, noi, intendiamo “servizio”. Secondo noi, o la politica “serve” o non serve. Perché, se non è serva, è padrona. E, se la politica è padrona, i servi diventiamo noi. E se noi diventiamo servi, la nostra non è più una democrazia.

Dunque o la politica diventa davvero “la più alta forma di carità”, secondo l’illuminante definizione di Paolo VI, o “potere” smette di essere un verbo e diventa un sostantivo: non più un mezzo ma un fine, con gli effetti nefasti che tutti abbiamo davanti agli occhi da fin troppi anni.

Insieme, dunque.

Da cristiani, da democratici, da neo-europeisti, con proposte politiche di qualità, concrete, credibili, responsabili e realizzabili, pensate non da tutti ma per tutti.

 Gianni Fontana

 

[1] “Il tramonto della politica”, Rizzoli, 2017

[2] San Pietro, 8 luglio 2019, omelia durante la Messa per i Migranti e i Soccorritori

About Author