A Torino il sindaco Lo Russo ha nominato un nuovo assessore alla sicurezza al posto di Gianna Pentenero candidata alla presidenza della Regione per il centrosinistra. Ha scelto un ufficiale dei carabinieri (Marco Porcedda) per sostituirla, e subito sono scoppiate le polemiche. È stato contestato il metodo adottato dal sindaco che ha legittimamente esercitato un potere che gli compete ma senza preoccuparsi di coinvolgere il Consiglio e si è bollata come eccessivamente “securitaria” la scelta di un militare di carriera, quasi si volessero imitare le forze di centrodestra tradizionalmente focalizzate sulla questione della sicurezza. Non ci pronunciamo sugli aspetti procedurali connessi a questa vicenda, ma vorremmo proporre alcune riflessioni proprio sul tema della sicurezza.
Il primo e fondamentale scopo dello Stato moderno è la tutela dei cittadini. Secondo Thomas Hobbes, il grande pensatore inglese autore del De Cive (1642) e del Leviathan (1651) gli uomini sono naturalmente immersi in una condizione – concepita in termini astratti e non storicotemporali – contrassegnata da una lotta perenne per la sopravvivenza: non vi è altra regola nello stato naturale (status naturae) se non quella di procurarsi di che vivere a scapito di tutti gli altri esseri umani; lo status naturae è segnato da un egualitarismo assoluto e tutti agiscono lecitamente in una dimensione di reciproca, perenne competizione. In questo bellum omnium contra omnia (guerra di tutti contro tutti) si può vincere o perdere, uccidere o essere uccisi. Questa condizione naturale condanna gli esseri umani a un’esistenza “misera”, nel segno della totale assenza di sicurezza.
Che fare dunque?
Gli uomini si radunano e si riuniscono in società (societas civilis) per individuare un insieme di regole che limitino il potere di ciascuno e riducano la precarietà dell’esistenza. Ma chi farà rispettare le regole? Occorre stipulare un patto con un soggetto cui conferire una quota del potere che nel precedente stato di anarchia era attribuito a ciascun individuo.
Un sovrano. Il quale avrà anche il potere di sanzionare il mancato rispetto delle regole che in tal modo assumeranno una caratura giuridica.
Queste sono le fondamenta dello stato moderno la cui finalità primaria è la sicurezza dei sudditi che in precedenza vivevano nella precarietà e nella libertà dello status naturae. Le dottrine politiche successive elaboreranno come sappiamo metodologie vieppiù raffinate per impostare il rapporto “contrattuale” fra sudditi (o cittadini) e sovrano. Il sovrano inadempiente può essere legittimamente deposto dai sudditi o deve periodicamente sottoporsi a una verifica per ricevere una riconferma o un ripudio (in altri termini attraverso le elezioni). Hobbes era un teorico, da bravo secentista, della monarchia assoluta e non riteneva possibile riesumare le pratiche democratiche della Roma repubblicana: ma affermò con forza, in questo risiede la sua attualità, la finalità principale dello Stato moderno, la sicurezza appunto di tutti i cittadini. Sull’argomento si sono scritte intere biblioteche e il professor Bobbio dal cielo mi perdonerà la pretesa di condensare in poche righe quattro secoli di pensiero politico.
Ma dobbiamo affrontare un nuovo salto concettuale: che cosa intendiamo per sicurezza?
Chi detiene legittimamente il potere (che sia un Sovrano assoluto o il governo della più avanzata delle democrazie liberali o il segretario del partito unico di una repubblica popolare) deve salvaguardare la vita dei cittadini. Ma come? Semplicemente limitandosi a impedire che la loro vita o le loro proprietà siano minacciate da qualche malintenzionato che non rispetta le regole comuni? E se i malintenzionati agissero spinti dal bisogno perché quelle stesse regole di sicurezza non sono sufficienti ad assicurare loro una vita dignitosa e fossero costretti a rubare per mangiare?
Ecco una falla nel sistema: la semplice sicurezza “da (o contro)” non basta a liberare completamente tutti gli uomini dalla condizione precaria che era propria dello stato di natura. Allora è necessario ampliare i confini del concetto di sicurezza. Si deve cominciare a parlare di sicurezza sociale. Le regole comuni devono delineare una società che non escluda nessuno. Il lavoro deve essere remunerato equamente , i malati essere oggetto di cure, gli anziani godere di una pensione, gli stranieri accolti e integrati senza cadere nelle mani di sfruttatori senza scrupoli nostalgici della ferocia dello status naturae. A ben vedere c’è molto Vangelo nei principi costituzionali degli Stati moderni e una consapevolezza di fondo: non solo la sicurezza sociale previene i comportamenti devianti (un ritorno alla logica del bellum omnium contra omnia per intenderci) ma tiene conto che in un mondo complesso la sicurezza non si limita alla mera difesa contro ipotetici soggetti ostili, ma si esprime in una dinamica multidimensionale che ambisce a promuovere attivamente la qualità della vita.
Abbiamo visto dunque come la questione della sicurezza, la finalità originaria delle compagini statali, si articoli schematicamente su due registri:
• sicurezza contro un soggetto ostile interno (in questo caso la sua tutela sarà affidata a un corpo di polizia che agisce entro i confini territoriali) o esterno (ecco il ruolo dell’esercito);
• sicurezza contro le condizioni che rendono la vita degli individui precaria e “misera” come accadeva in quello status naturae che è stato superato in virtù del patto contrattuale stipulato fra il sovrano (che ovviamente in una democrazia moderna ha un’incarnazione istituzionale e non personale) e i cittadini.
Per inciso la sicurezza è la precondizione della libertà: non si può essere veramente liberi se oppressi dal timore di un aggressore ostile o dalla precarietà della propria situazione economica o di salute; le due dimensioni della sicurezza sopra delineate rimandano quindi, mi pare, al noto binomio libertà “da” e libertà “di”.
Chi ha un orientamento politico più conservatore in genere considera prioritario il primo elemento del binomio: la sicurezza contro un soggetto ostile o la libertà “da”, intesa soprattutto come libertà di intraprendere un’attività economica senza ostacoli eccessivi da parte del potere politico o da regole troppo stringenti (i famosi lacci e lacciuoli di einaudiana, e in certa misura anche sturziana memoria).
I progressisti invece da sempre pongono una specifica enfasi sul secondo elemento del binomio e prediligono un approccio più largo al tema della sicurezza; quanto alla libertà è il mondo progressista ad avere sempre sottolineato che essa sarebbe compromessa alla radice senza un assetto sociale che metta tutti i cittadini in condizione di condurre una vita prospera e dignitosa (sempre a proposito di esternazioni presidenziali si ricorda una famosa affermazione di Sandro Pertini al riguardo).
Ma ora ci dobbiamo porre una domanda di fondo: è possibile tenere separati i due elementi del binomio? Ci troviamo di fronte a un’antinomia? O non piuttosto a due dimensioni che si richiamano vicendevolmente?
Se uno Stato puntasse soltanto sulla sicurezza “contro” un soggetto ostile e trascurasse la dimensione sociale rischierebbe di ritrovarsi con una massa di persone marginalizzate costrette a rubare per mangiare: non avrebbe altra scelta che intensificare il controllo del territorio e delle persone, scivolerebbe rapidamente giù per una china sempre più autoritaria e paradossalmente finirebbe per cancellare anche i presupposti della libertà “da” .
Uno Stato concentrato sui soli diritti sociali rischierebbe per contro di ritrovarsi poco attrezzato nel difendere i propri cittadini dall’attacco di qualche malintenzionato interno (o anche esterno). È ingenuo ritenere che il crimine scaturisca esclusivamente dalla fame o dall’emarginazione sociale: l’uomo non è naturalmente buono come credeva un certo utopismo illuminista che ancora fa da sfondo a tante fantasie progressiste, e l’associazione di tanti malintenzionati genera le grandi e potenti imprese criminali come la mafia e la ‘ndrangheta. La sicurezza basica, se non evolve in sicurezza sociale, risulterà monca e i diritti sociali, senza la tutela contro qualsiasi aggressione da parte dei malintenzionati, saranno privi di fondamenta e crolleranno miserevolmente.
A noi appare quindi evidente la totale complementarietà delle due dimensioni. Ci si chiede perché mai in questo mondo sgangheratamente bipolare gli uni al sentire nominare i diritti sociali spalanchino gli occhi e con voce cavernosa proferiscano la parolina feticcio “comunismo!” e gli altri di fronte agli sforzi intesi a reprimere il crimine scuotano le mani inorriditi e con voce ugualmente cavernosa articolino un’altra parolina feticcio “securitario!”.
Non sono questi i segni di culture politiche mature e capaci di leggere con coraggio e senza pregiudizi i segni dei tempi.
Aggiungerei un’ultima osservazione. L’Italia come tutti gli altri Paesi europei è soggetta a una pressione migratoria senza precedenti. Affrontare il problema secondo un’angolazione, usiamo il feticcio, puramente securitaria è ingenuo oltreché cristianamente inaccettabile (abbiamo trattato diffusamente l’argomento in un precedente articolo). Ma ignorare i problemi di ordine pubblico che l’afflusso improvviso di un numero rilevante di persone può comportare è ugualmente sbagliato. Molte persone abbandonano i propri Paesi di origine poiché sono dominati da una diffusa insicurezza, l’ordine è precario, il diritto alla vita (alla sicurezza!) non è rispettato. Per esempio molti argentini in fuga dal loro Paese (non un paese del quarto mondo!) asseriscono che la situazione nelle grandi città compresa Buenos Aires si è fatta “pericolosa”. In taluni quartieri è un rischio uscire da casa per fare la spesa in ogni ora del giorno e della notte. E allora la cosa migliore che possiamo offrire a queste persone, insieme al lavoro certamente, è la legalità. Un “ordine”, una “pax” che assicuri loro in prima battuta una vita migliore, più stabile, più sicura: riconoscimento dei loro diritti ma anche ferma richiesta del rispetto dei doveri verso la comunità di accoglienza. La legalità è il primo mattone di un autentico percorso di integrazione.
Andrea Griseri
Pubblicato su www.associazionepopolari.it