Premessa: La sua vita è stata breve, tanto che il 1 Dicembre dello scorso anno si scioglieva il terzo governo messo in piedi da Netanyahu. La coalizione si era sfaldata sulla questione del bilancio, per il quale non si era trovato un accordo e aveva segnata l’ennesima riprova delle difficoltà di formare un governo stabile in Israele. Quest’episodio ha marcato la fine del difficile connubio tra il Likud di Netanyahu e il partito Bianco e Blu dell’ex-Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Benny Gantz, e del tentativo dei due uomini di alternarsi alla gestione del governo e del Paese.
L’instabilità politica è un crescente problema per Israele. Nel 2018 si era dimesso Avigdor Lieberman, fondatore e capo del partito politico Israel Beytenu. Seguirono elezioni anticipate che videro nascere l’alleanza tra il Likud e il partito di Gantz. Questa risultò in uno stallo. Ancora nuove elezioni che videro Netanyahu incaricato di formare un governo senza che nessuno dei due leader riuscisse ad imporsi. Con il Coronavirus alle porte vi fu un appello per la formazione di un esecutivo di unità nazionale e, a seguito di giornate di intensi negoziati, i due leader riuscirono a trovare un accordo per la divisione del potere. Ne abbiamo appena parlato all’inizio.
Una sorpresa: L’altro ieri, di fronte ad una platea gremita e alle luci delle telecamere, si presentava un raggiante Netanyahu rivendicando “un’immensa vittoria” della destra. Lo spoglio delle schede faceva sperare in una vittoria del suo blocco. Speranza che però è stata breve.
Giungeva, infatti, la notizia che Ra’am, il piccolo partito islamico di Mansour Abbas, era riuscito inaspettatamente ad entrare alla Knesset ottenendo 4 seggi. La partita era di nuovo aperta e nulla poteva considerarsi per deciso. Il figlio di Netanyahu aveva definito questa formazione come terrorista e legata ai Fratelli Musulmani.
Come ampiamente previsto, al primo posto restava comunque il partito Likud guidato da Netanyahu. Le previsioni gli attribuivano una trentina di seggi e questo continuava a farne la principale formazione politica israeliana. Purtroppo per il premier uscente, i voti del suo partito, con quelli degli ortodossi e dei nazionalisti, non bastano a formare una maggioranza: si sta, insomma, ripetendo nuovamente la situazione determinatasi con le ultime elezioni di aprile, quando per formare un governo gli mancavano tre seggi.
L’incertezza regna dunque nuovamente sull’avvenire politico di Israele, così come sul suo discusso premier Benjamin Netanyahu. Cerchiamo di capire.
Le complicazioni di una legge elettorale: In un Parlamento nel quale siedono 120 deputati, per formare un governo serve una maggioranza assoluta di 61 voti. Il sistema elettorale israeliano è caratterizzato da un legge proporzionale di natura integrale che non consente ad un partito di governare da solo. Permette invece ai piccoli partiti di condizionare l’esito di ogni contesa elettorale e ne amplifica il potere di ricatto.
Sulla carta ogni partito è uguale, ma per accedere in Parlamento è necessaria una soglia del 3,25%, corrispondente a 4 seggi. Questa situazione rende indispensabile formare delle coalizioni che spesso risultano instabili e, una volta costituite, di farle diventare molto fragili. Chiunque voglia guidare il Paese deve necessariamente andare alla ricerca di accordi che gli consentano di governare. Il perché si spiega presto: in lizza vi sono 37 partiti, in maggioranza piccolissimi, e quindi in grado di condizionare chiunque vinca le elezioni.
Il blocco delle destre è in maggioranza, ma con i seggi a disposizione sarà probabilmente l’ex-ministro della Difesa Naftali Bennett a decidere le sorti del futuro governo. Egli aveva dichiarato che avrebbe fatto ciò che sarebbe bene per Israele, ma i suoi rapporti con Netanyahu non sono buoni.
Le vicende giudiziarie di Netanyahu: Benché l’ex-premier resti il personaggio politico chiave, in quanto leader del principale partito, cosa che lo rende indispensabile alla formazione di un qualsiasi governo, vincere queste elezioni è per lui di fondamentale importanza: ad essere in gioco, oltre che al perdurare del suo successo, è anche la sua sopravvivenza politica. Se è vero che continua a conservare il suo zoccolo duro. e che in sua assenza nessuno è in grado di formare un governo, è ancora più vero che egli si trova ad affrontare delle serie difficoltà giudiziarie.
E’ infatti sotto inchiesta per corruzione, abuso di potere e malversazione. Queste vertenze ruotano essenzialmente su tre casi: il primo, riguarda alcuni regali accettati per favorire amici miliardari in cambio di favori politici; il secondo, ha a che fare con il sabotaggio del quotidiano Israel Hayom per ottenere articoli in suo favore sulle pagine del giornale Yedihoth Ahronoth; infine, il varo di regolamenti favorevoli alla compagnia di telecomunicazioni Bezeq.
Restare al potere e conservare la carica di premier lo renderebbe più forte di fronte agli attacchi della giustizia. Potrebbe infatti presidiare al varo di una legge che possa impedire ad un Primo ministro indagato di comparire in tribunale. Per riuscirvi gli è dunque indispensabile ottenere la maggioranza. Finora Netanyahu si è difeso denunciando una caccia alle streghe e un tentativo di colpo di Stato.
L’ex-premier non è uomo facile e all’interno del paese si scontra con molti nemici che ne chiedono la testa, come fanno gli elettori di centro e di sinistra. Al di fuori dei giochi politici, è da 10 mesi che ogni sabato si radunano folti gruppi di manifestanti per chiederne la destituzione. Si tratta delle manifestazioni più consistenti e durature mai tenute dalla nascita dello Stato di Israele. L’ultima, avvenuta sabato scorso a Gerusalemme, ha visto radunate almeno 50 mila persone.
I motivi del successo di Netanyahu: Con i suoi 12 anni di governo Netanyahu è divenuto il premier più longevo della storia di Israele. La sua forza sta nell’aver garantito un inusitato livello di tranquillità alla società israeliana e di essersi sempre posto come garante della sicurezza, sia che fosse interna, sia alle frontiere, o, adesso, contro il dilagare dell’epidemia di Coronavirus.
Il Paese risulta, infatti, in testa alle classifiche per numero di vaccinati: almeno metà della popolazione ha già ricevuto la prima dose ed il resto si appresta a seguire. Egli ha avuto la preveggenza di accordarsi subito con l’americana Pfizer e assicurarsi prima degli altri, pagando qualcosa di più, le forniture di vaccino necessarie. Contenere l’epidemia ha anche consentito all’economia di non precipitare. Molto bene sta andando il settore tecnologico, sono aumentate del 20% le esportazioni di diamanti e buoni anche i risultati dell’industria alimentare.
Vi sono da prendere in considerazione anche importanti risultati in campo diplomatico quali il riconoscimento di Gerusalemme come capitale, l’annessione delle alture del Golan, la cessazione del boicottaggio nei confronti dei prodotti di esportazione e gli accordi di Abramo che hanno messo fine all’isolamento di Israele nel mondo arabo.
Riguardo i palestinesi non se ne sente più parlare e raramente la situazione è stata così tranquilla: sul terreno, la colonizzazione procede, mentre da Ramallah il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Abu Mazen collabora con le autorità israeliane nel garantire la sicurezza, al fine di evitare problemi all’interno dei Territori. Su di loro non si è sentita neppure una parola da parte dei partiti arabi presenti in Israele. Attualmente il 20% della società israeliana è infatti composto da arabi.
Questa campagna elettorale si è caratterizzata per un tasso di partecipazione piuttosto basso che si calcola essere intorno al 67%. Questo si spiega con la stanchezza dell’elettorato dopo ben quattro elezioni tenute nel corso di due anni. Non è detto poi che, formato il nuovo governo, non possa presto esservene una quinta a causa dell’estrema frammentazione dello spettro elettorale e l’improbabilità delle coalizioni.
Adesso inizia la parte più interessante che consiste nel gioco delle alleanze. Dopo l’ultimo tentativo di formare un esecutivo maggiormente orientato verso il centro, oggi non si può che guardare verso la destra e l’estrema destra, inclusi tutti quegli ultra-ortodossi con i quali Netanyahu si guarda bene dal litigare.
Per via del voto postale ed in attesa di ricevere i suffragi del personale diplomatico e militare, restano da contare pressappoco altri 450 mila voti. Per conoscere l’esito di queste elezioni bisognerà attendere fino alla giornata di Venerdì.
La nuova amministrazione americana: Presto sarà necessario guardare ai rapporti con Washington. La Casa Bianca sta osservando con molta attenzione lo svolgersi di queste elezioni ed il presidente Biden conosce bene Netanyahu: è stato otto anni il vice di Obama ed ha servito per lungo tempo nel Comitato Affari Esteri del Senato americano.
Gli Stati Uniti sono grandi amici e solidi alleati di Israele, ma con Joe Biden i rapporti saranno inevitabilmente diversi da quelli intrattenuti con Donald Trump che, come primo viaggio all’estero, scelse il Medio Oriente e di recarsi in Arabia Saudita. Mai si era vista cosa simile all’inizio di una presidenza americana.
Biden questa volta ha messo più di trenta giorni per chiamare Netanyahu, anche se quest’ultimo è stato il primo leader politico della regione con il quale ha parlato. La Casa Bianca sarà meno parziale verso Israele, cercherà di stabilire rapporti più equilibrati nella regione e insisterà per una ripresa dei colloqui con i palestinesi al fine di giungere alla soluzione cosiddetta dei due Stati.
Vista la precedenza che in politica estera il nuovo presidente americano sta dando al tema delle libertà e dei diritti umani, vi è da domandarsi quale sarà il suo atteggiamento di fronte alle posizioni razziste e xenofobe di una parte dei partner della coalizione di Netanyahu che vanno dai suprematisti ebrei all’integralismo degli ultra-ortodossi. Potrà questo complicare i rapporti con Washington?
Considerazioni finali: Per via dell’emersione del piccolo partito arabo Ra’am, l’ ”immensa vittoria” sperata e annunciata da Netanyahu non esiste più.
Israele si trova oggi di fronte all’assurda situazione che il destino del governo dipende dalle decisioni di un partito islamico, le cui vedute sono agli antipodi dei quelle espresse dai nazionalisti e dagli ultra ortodossi sui quali il premier si è sempre basato per costruire le sue coalizioni. Sarà interessante vedere se e come a Netanyahu riuscirà di comporre una sintesi efficace tra tutte queste forze. Nessun altro ne sarebbe capace.
Sarà comunque necessario attendere i risultati definitivi prima di poter iniziare le trattative. La sfida che attende Netanyahu è quella di riuscire a formare un governo stabile in una società polarizzata e di fronte ad un sistema politico frammentato.
Anche se in vantaggio, permane il dubbio che a Netanyahu non sarà questa volta possibile formare una coalizione con gli alleati tradizionali: il suo margine di manovra rischia di non essere sufficiente. In questo caso non sarebbe una sorpresa se Israele andasse verso una quinta elezione, probabilmente nel prossimo settembre. La particolarità del suo sistema elettorale mostra i suoi limiti che rendono difficilissimo formare delle coalizioni. Solo in Israele!
Edoardo Almagià