1. Che dire della presenza e dell’impegno attivo dei cattolici in politica, oggi in Italia? Va da sé

che, in quanto cittadini, anche i cattolici, al pari di ogni altro, debbano partecipare alla cosa pubblica. Ma in questa sede si farà riferimento ad un coinvolgimento diretto e organizzato alla vita democratica del paese. E’ ancora fresco il richiamo di papa Francesco, pronunciato al Congresso di Firenze nel 2016, ai cattolici italiani. “Non state a guardare dai balconi la vita”. Prima però di entrare nel merito dell’argomento un paio di premesse mi paiono opportune.

Primo. Se l’essere umano è zoòn politikon, la fede non può non essere “politica” nel senso più pieno di tale malinteso termine. Durante la crisi dei rapporti tra Stato e Chiesa del 1931, rispondendo al fascismo che pretendeva il monopolio dell’educazione della gioventù e che chiedeva alla Chiesa di restare presso l’altare, Pio XI replicò con coraggio rivendicando il diritto – dovere della Chiesa di occuparsi di politica “ogniqualvolta la politica tocca l’altare” – il che quasi sempre accade. Invero, già nel II secolo, nella celebre Lettera a Diogneto questo pensiero era stato chiaramente esposto. Ciò per dire di una continuità di pensiero che attraversa tutta la storia della comunità cristiana. Il cristiano coerente non può non essere interessato alla politica, perché la sua stessa esperienza di credente lo rende attento alla dimensione del bene comune e perciò alla politica. Di qui l’importante implicazione per cui i cattolici non possono rassegnarsi a svolgere ruoli esclusivamente pre-politici, rifugiandosi in ambiti di impegno sociale e culturale – come troppo spesso accade di ascoltare. C’è chi afferma: basta esercitare la carità! C’è qui del vero e del falso. Il vero è che tutta la missione del laico credente è rendere presente la carità. Il falso è la riduzione della carità all’assistenza e all’aiuto ai portatori di bisogni. La carità deve mettere in azione la ragione per andare alla cause, prossime e remote – come la Caritas in Veritate (2009) ha chiarito in modo inoppugnabile.

La seconda premessa concerne la vexata quaestio dell’unità dei cattolici in politica, vale a dire del “partito cattolico”. Conviene subito sgombrare il campo da un equivoco fonte di incomprensioni e di sterili diatribe. (Non sempre in buona fede). Che il problema non si ponga, è suggerito dal fatto che fin dalle origini le comunità cristiane hanno visto nascere concezioni e declinazioni diverse della comune fede. Tanti sono stati e sono i modi di realizzare la fede nella civitas. Monoliticamente uniforme la Cristianità non lo è mai stata: da sempre sono convissuti più modi diversi di vivere e sentire la propria appartenenza alla comunità cristiana e di rendere pubblicamente ragione nello spazio pubblico della politica, usando l’argomentazione ragionevole. Uno dei grandi guadagni acquisiti dalla coscienza occidentale è la laicità, la quale comporta che l’autorità politica non si identifica con nessuna visione dell’uomo. Vale a dire, non esclude dallo spazio pubblico della deliberazione e dallo spazio politico della decisione nessuna visione. Il cattolico avanza la sua visione e propone i suoi paradigmi attraverso un’argomentazione che sia condivisibile o almeno comprensibile a tutti, anche se non da tutti accolta. Gli ordinamenti del mondo sono regolati dalla legge della ragione (“Date a Cesare…”) e non dalle petizioni di principio o dagli slogan che fanno leva solo sulle emozioni. Addirittura S. Pietro ce lo ricorda: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”. (1PT3, 10). Il cattolico respinge l’egemonia. Il suo modo di intervento è testimoniale non egemonico. Egemone è uno che vuole imporre la sua visione. L’egemonia è sempre ideologia; e l’ideologia è sempre egemonica.

Per chiudere su questo punto. Proprio perché il Cattolicesimo può essere declinato sempre e solo al plurale nulla vieta che i laici cattolici possano aderire o dare vita a formazioni partitiche diverse, a patto che vengano rispettate le regole della legge della ragione. Ecco perché, soprattutto oggi, non avrebbe senso immaginare una formazione partitica di carattere confessionale. Già Luigi Sturzo un secolo fa e poi Alcide De Gasperi avevano rifiutato una tale prospettiva. Mai si dimentichi che la scelta di Sturzo di chiamare popolare e non del popolo il suo partito rispondeva all’esigenza di far comprendere che, mentre “popolare” significa non elitario, “del popolo” significa negare legittimità politica a coloro che non si riconoscono in quel determinato partito. Da qui la tendenza a scivolare verso il populismo, avversario primo del popolarismo. Si ricordi quel che accadde nel primo congresso del Partito Popolare Italiano a Bologna nel 1919, quando padre Gemelli e don Francesco Olgiati contestarono don Sturzo per aver chiuso “Cristo in soffitta”. Ma il Calatino non arretrò di un passo, restando fermo sulla sua linea: presa di distanza sia dai conservatori sia dal blocco socialista. Ha scritto J. Ratzinger nel suo Chiesa, Ecumenismo e Politica: “Il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica” – quanto a significare che non avrebbe fondamento la pretesa di riunire i cattolici in un unico partito. Allora anziché perdere tempo ed energie in sterili contrapposizioni converrebbe piuttosto dirigere l’attenzione sul seguente problema: perché in Italia è ancora così difficile essere considerati politici e cattolici, dato che si continua a preferire l’espressione “politici cattolici”, mentre non si parla di “politici atei”, “politici protestanti” o  di altra denominazione? (Discorso analogo vale anche per altre configurazioni: perché si viene etichettati come economisti cattolici, giuristi cattolici, medici cattolici, intellettuali cattolici, ecc. mentre non ci si arrischia a parlare di economista ateo, giurista ateo, intellettuale ateo, ecc?). Bisognerà, prima o poi, aprire un dibattito serio su ciò – cosa mai avvenuta finora.

 

  1. Torno al tema posto in apertura. Il dato di fatto da cui prendo le mosse è che da un trentennio a questa parte si è consumata una cesura profonda, entro il mondo cattolico italiano, per quel che riguarda l’impegno politico diretto. Ciò è avvenuto sull’onda dell’accettazione supina della “teoria della diaspora”: i cattolici devono distribuirsi tra gli schieramenti politici già in esistenza per contagiarli dall’interno. E’ la tesi bene resa dalla metafora del lievito: al modo di questo, i cattolici devono cercare di veicolare i valori e i principi di cui sono depositari nei programmi delle diverse piattaforme partitiche. (Mi piace annotare che la teoria della diaspora pone il suo fondamento teologico nella posizione agostiniana secondo cui la politica serve a porre limiti al male, al katekon. Non così, invece, la posizione di Tommaso secondo cui la politica serve piuttosto per realizzare il bene comune).

Duplice la debolezza di una simile scelta di strategia.  Per un verso, essa comporta che i cattolici si rassegnino ad essere minoranza ovunque essi si trovino inseriti e quindi accettino di scomparire politicamente, proprio come l’immagine del lievito lascia intendere. Col risultato che, poiché in democrazia vige il principio di maggioranza, chi è minoranza mai potrà vedere accolte le proprie istanze, a meno di gesti compassionevoli o buonisti da parte della maggioranza. Bel paradosso, davvero! I cattolici entrano nei partiti che già esistono per far avanzare un certo progetto politico che dice della loro identità, pur sapendo che mai riusciranno a far valere le loro ragioni. Né vale l’argomento – troppo spesso adombrato – secondo cui, su questioni di primaria importanza, i cattolici presenti nei diversi schieramenti potrebbero convergere in modo unitario – facendo rete, come si dice. Il che è a dir poco ingenuo. Una rete, infatti, appartiene all’ordine dei mezzi. Si fa rete per conseguire un obiettivo: se questo non c’è o non è definito, la rete non serve a nulla; anzi comporta solo un aggravio di costi, in primis umani. Chi conosce le prassi politiche sa che ciò non è fattualmente possibile, pur essendolo in astratto.  Per l’altro verso, l’opzione in questione avrebbe, se accolta, un esito a dir poco imbarazzante: tutte le grandi matrici culturali e ideologiche presenti da tempo nel nostro paese avrebbero la possibilità di esprimersi e di confrontarsi dialetticamente sulla scena politica, eccetto la matrice di pensiero cristiano. Avverrebbe così che la linea di pensiero liberale, quella radical-repubblicana, quella nazional-popolare e quella socialista sarebbero titolate a presentarsi con i rispettivi programmi al giudizio degli elettori, ma non quella dei cattolici, i quali “per dire la loro” dovrebbero bussare all’una o all’altra porta, per chiedere ospitalità.

In realtà, ciò è quanto si è andato verificando nell’ultimo quarto di secolo. Non pochi cattolici hanno ritenuto, in buona fede, di impegnarsi aggregandosi ai partiti già presenti svolgendo spesso un lavoro importante e generoso, senza però mai raggiungere quella soglia critica che avrebbe consentito loro di non doversi accontentare, per così dire, di un piatto di lenticchie. I modelli a massa critica sviluppati dalla scienza politica insegnano infatti che, una volta avviato, un processo di trasformazione strutturale raggiunge l’equilibrio che dà i risultati attesi solo se il numero di coloro che ad esso prendono parte raggiunge una certa soglia – la massa critica, appunto – la cui entità dipende dalle circostanze prevalenti in un certo momento storico. Questo spiega perché, nonostante gli sforzi profusi e le energie messe in campo dai cattolici i risultati sono stati così al di sotto delle aspettative. E’ proprio da questa constatazione che è nata l’idea di dar vita al progetto di Politica Insieme, di cui dirò nel prossimo paragrafo.

Tuttavia, desidero fin da subito rimarcare che all’origine della irrilevanza della presenza dei cattolici nella nostra scena politica non è estranea l’improvvida decisione, a suo tempo presa a cuor leggero, di optare per il bipolarismo.  La domanda che dobbiamo porci è: riteniamo davvero, in coscienza, che il sistema bipolare possa interpretare le esigenze di democrazia sostantiva (non tanto formale) di un paese come l’Italia? Perché mai questo modello ha dato esiti soddisfacenti nelle democrazie dell’Europa continentale – esclusa cioè la Gran Bretagna. La risposta in realtà è semplice: il bipolarismo è un sistema figlio di una cultura politica di stampo anglosassone. Basterebbe rileggere la grande letteratura politica, a partire da Ugo Grozio e da Johannes Althusius  (primo Seicento) per capire la ragione di tale circostanza. L’Europa è da sempre un crocevia di culture, di tradizioni di pensiero, di norme sociali diverse. Non così l’America. Costringere pertanto una realtà così ricca e composita come è quella italiana ad accogliere uno schema rigido (in quanto esso postula il “tertium non datur”) e unidimensionale (perché è solamente rispetto ad una sola dimensione di valore che verrebbero a differenziarsi i due poli) come è quello del bipolarismo significa restringere artatamente lo spazio di scelta libera dei cittadini. E la conseguenza è quella che tutti sanno: la non partecipazione al voto di chi non si riconosce nelle piattaforme dei due poli.

D’altra parte, affermare che il bipolarismo sarebbe necessario perché esso garantirebbe la governabilità, come ritengono i suoi sostenitori, è un asserto che non regge, né teoricamente né empiricamente. Non ci si potrebbe spiegare, ad esempio, la stabilità politica di quei paesi europei che non hanno adottato il sistema bipolare. La governabilità, che certamente è un requisito sacrosanto per la democrazia, deve essere assicurata in ben altri modi e con ben altri mezzi, come ormai teoria ed evidenza empirica confermano. Il nostro non è un paese da sistemi elettorali “puri”: né un proporzionale puro né un maggioritario assoluto. La proposta del bipolarismo è una scorciatoia che assicura bensì l’efficienza, ma solo nel breve termine, ma che pone a repentaglio lo spirito del principio democratico stesso. (Brexit e Governo Trump sono “figli” del bipolarismo). Non si dimentichi che ciò che dà stabilità alla democrazia è l’addensarsi degli elettori al Centro.

 

  1. Quanto precede vale a dare conto delle ragioni della nascita, un paio d’anni fa, dell’associazione

di cultura e azione politica “Politica Insieme”. La prima fase del lavoro svolto si è conclusa il 30 novembre scorso a Roma con l’approvazione definitiva del Manifesto fondativo nel corso di una assemblea dei firmatari dello stesso. Durante la seconda fase, che dovrà concludersi entro la fine di giugno del corrente anno, ci si occuperà della stesura del Programma politico vero e proprio. A tale riguardo, tredici gruppi di lavoro sono stati costituiti per trattare altrettante tematiche. L’adesione a tali gruppi è volontaria e aperta a tutti coloro che si riconoscono nei principi cardine esposti nel Manifesto. Dopodiché in un’apposita Assemblea costituente si deciderà se dare vita o meno ad un nuovo soggetto partitico, autonomo, non confessionale, aperto a chiunque ne condivida la missione e il programma.

Quali i punti fermi che hanno guidato finora il lavoro di Politica Insieme? Primo, la definizione del modello di ordine sociale verso il quale dirigere l’azione politica. Più per mancanza di cultura politica che per deliberato proposito, è accaduto che si sia andata consolidando l’idea, nel corso dell’ultimo trentennio, secondo cui il cattolico impegnato in politica possa indifferentemente optare per un progetto neoliberista o neo-statalista o altro ancora. L’idea che è passata è che si debba restare uniti sui principi morali, ma non anche sui processi di trasformazione degli assetti istituzionali (giuridici e economici), qualora questi risultassero incompatibili con quei principi. Il che rappresenta un patente esempio di contraddizione pragmatica. Il fatto è che la divisione tra cattolici quasi mai avviene sui principi primi e sui valori fondativi, ma sui modi pratici di incarnarli in progetti concreti. Come ebbe a dire K. Adenauer con riferimento al mondo cattolico: “Viviamo tutti sotto il medesimo cielo, ma non tutti abbiamo il medesimo orizzonte”. Purtroppo il nostro mondo cattolico non ha ancora ben compreso, e tanto meno assimilato, la nozione di responsabilità adiaforica. A tal proposito, giungono particolarmente opportune le parole del Card. Bassetti, presidente della CEI, quando nella sua prolusione al Consiglio Permanente del 25 sett. 2017 scrisse: “Non è auspicabile che, nonostante le diverse sensibilità, i cattolici si dividano in ‘cattolici della morale’ e ‘cattolici del sociale’. Né si può prendersi cura dei migranti e dei poveri per poi dimenticarsi del valore della vita; oppure, al contrario, farsi paladini della cultura della vita e dimenticarsi dei migranti e dei poveri”. In buona sostanza, va superata la divisione diabolica (“diabolon” è chi si adopera di dividere, di contrapporre) tra i “cattolici della morale” che, a ragione, rifiutano le proposte di certa sinistra sulle questioni bioetiche e della sussidiarietà, e i cattolici del sociale che, pure a ragione, respingono le posizioni della destra sulla giustizia sociale, sulla declinazione del principio di solidarietà e sui temi di geopolitica, quali sovranismo e nazionalismo.

E’ veramente inquietante che quasi mai si cerchi di affrontare la questione della responsabilità adiaforica. Eppure la più recente elaborazione di Dottrina Sociale della Chiesa ha incorporato, ormai da quarant’anni, la nozione di “strutture di peccato”. Fu Giovanni Paolo II, nella Sollecitudo Rei Socialis (1987) a coniare questa espressione, raccogliendo il testimone da Paolo VI (Populorum Progressio, 1967). Un programma – non già una mera lista di desideri o di aspirazioni –  che si proponesse di aggredire le non poche “strutture di peccato” in ambito soprattutto (ma non solo) economico e finanziario riceverebbe oggi – ne sono persuaso – un ampio consenso, anche presso i non credenti e i portatori di altre fedi religiose. Chi in buona fede persegue il fine del bene comune, non potrebbe che accogliere con simpatia la proposta di un modello di organizzazione economica e sociale volto allo sviluppo umano integrale. Ecco perchè il Programma dovrà indicare non solamente il cosa fare – ad esempio, quali istituzioni economiche e finanziarie vanno cambiate – ma anche il come farlo. Deve esserci di monito il celebre pensiero di Kafka: “Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via”. Non si può amare il fine se non si carca con passione il sentiero che ad esso conduce. Una dichiarazione recente di J.C. Juncker, ex presidente della Commissione Europea, ci permette di cogliere la rilevanza di quanto appena scritto. “Noi decidiamo qualcosa – ha affermato il Nostro – lo comunichiamo, poi aspettiamo un po’ e vediamo cosa accade. Se di lì a poco non cominciano a volare ingiurie e non si scatenano rivolte, poiché la più parte non capisce ciò che è stato deciso, continueremo passo dopo passo, finchè non ci sarà più strada da percorrere”. (Beata ingenuità!). Ci si può poi stupire se il vento dell’antieuropeismo vada soffiando così minaccioso da un ventennio a questa parte?

Un secondo punto fermo ha a che vedere con la presa d’atto che nessuna forza politica può resistere a lungo se non è guidata da un’idea di futuro e se non si alimenta con un pensiero forte. In speciali e limitate circostanze, la carenza di pensiero può essere surrogata dalla figura di un leader carismatico, ma non a lungo, come il caso italiano conferma ad abundantiam. Ebbene la proposta che Politica Insieme avanza poggia sulla  considerazione che ci sono oggi in Italia tutte le condizioni per dare ali ad una forza politica di centro moderata (e quindi non conservatrice) aperta a credenti e non credenti che si riconoscono in un progetto politico di taglio trasformazionale. Invero, l’opzione riformista è inadeguata quando si vive un tempo straordinario come è l’attuale, connotato dai due fenomeni di portata epocale della nuova globalizzazione e della quarta rivoluzione industriale. Si tratta allora di contrastare quella concezione demofobica della politica, oggi assai diffusa, che umilia i corpi intermedi della società (nel senso dell’art.3 della Costituzione) privandoli della loro capacità di proposta e di indirizzo. Una politica non demofobica mai può accettare le ragioni del populismo; è invece a favore del popolarismo nel senso di Sturzo e di J. Maritain.

Concretamente, ciò implica il passaggio dal modello diadico di ordine sociale fondato su Stato e Mercato al modello triadico, Stato, Mercato, Comunità. In tale modello, i corpi intermedi si vedono riconosciuti, e non già tollerati, per la loro capacità di affermare l’irriducibile relazionalità della persona. Si rammenti, infatti che il primo dei diritti umani è quello alla socialità e al riconoscimento reciproco. Solamente all’interno del modello triadico è possibile pensare di realizzare un’economia civile di mercato, finalizzata alla prosperità inclusiva, alternativa sia alla economia neoliberista di mercato sia all’economia neo-statalista di mercato, della cui inadeguatezza sono ormai tutti consapevoli, salvo gli ideologues. Il che è quanto esige la società decente; la società cioè che non umilia i suoi membri in difficoltà e gli emarginati con provvedimenti di paternalismo di Stato e/o di conservatorismo compassionevole. Si tratta, allora, di attuare politiche che tutelino, in modo congiunto, la persona, la società, la natura – come proclama con vigore la Laudato Si’. Tutelare la persona comporta l’adozione di provvedimenti volti tendenzialmente ad assicurare il lavoro anche ai meno dotati; tutelare la società obbliga a ridurre significativamente le scandalose diseguaglianze sia sociali sia territoriali (dualismo Nord-Sud); tutelare la natura significa avviare una transizione ecologica, oggi sempre più invocata soprattutto dalle giovani generazioni, che è tecnicamente e finanziariamente possibile, purché lo si voglia.

Un ultimo punto fermo caratterizza il modo di lavorare di Politica Insieme. Si tratta del rifiuto dalla cosiddetta “negative politics”, di quella prassi politica, oggi di gran moda, che cerca di ottenere il consenso dell’elettore demonizzando o denigrando le proposte degli avversari. Piuttosto, lo stile che fin dall’inizio Politica Insieme ha fatto proprio è quello della “positive politics” e della mitezza. Sappiamo che la democrazia vive oggi la sua terza grande crisi in un secolo e si sa che per uscirne c’è bisogno di uno sguardo diverso sulla realtà. E’ noto che, la democrazia si fonda su tre grandi idee: l’universalismo, la verità, la libertà. Ebbene, la prima idea è oggi minacciata dall’espandersi dei rigurgiti sovranisti; la seconda dalla endemica e rapida diffusione delle fake truths (verità ingannevoli), fenomeno questo assai più grave di quello delle fake news; la libertà è oggi ostaggio dell’individualismo libertario, bene espresso dallo slogan “volo, ergo sum” (Voglio, dunque sono)!

Non ci vuole molto per comprendere perché è rispetto a tale obiettivo – far uscire la democrazia dalle secche dell’attuale crisi endemica  – che si misura la cifra di un progetto politico all’altezza delle sfide in atto. Tutt’altro, quindi, di quanto vanno proponendo coloro che pensano alla politica come a una mera negoziazione degli interessi, pur legittimi, dei vari gruppi sociali entro l’orizzonte del corto termismo.

 

  1. Quale congettura è possibile avanzare circa il successo di una iniziativa del genere? Chi scrive

è dell’avviso che alta è la probabilità di un esito favorevole.   A condizione però che una duplice condizione venga soddisfatta. Da parte del laicato cattolico che si impari a formulare le proprie posizioni secondo i canoni dell’argomentazione razionale. Quando il discorso religioso entra nella sfera pubblica, esso è tenuto, non solo a rispondere alle eventuali critiche, ma anche a fornire – come sopra osservato –  ragioni a sostegno delle proprie istanze, ragioni che devono poter essere comprese – anche se non necessariamente condivise – dagli “altri”. E’ questo un compito non semplice, cui il nostro mondo cattolico non è stato ancora attrezzato in modo adeguato. E se ne comprendono i motivi. Fino a che il discorso religioso veniva relegato alla sola sfera privata, non c’era bisogno di produrre ragioni per gli altri. Per coloro che si riconoscono nella medesima fede ci sono già la teologia e la pastorale. Ma quando devo calarmi nell’agora della polis e confrontarmi con il non credente non posso sottrarmi alle regole del metodo deliberativo (da non confondere col metodo decidente).

Da parte del laicato non cattolico, va superato il pregiudizio secondo cui i cattolici pretenderebbero di trasferire le loro opzioni morali nelle leggi dello Stato. Col risultato che ogni proposta dei cattolici, anche la più umana di tutte, come quella della difesa del diritto alla vita, viene scambiata per proposta di fede e, in quanto tale, eliminata dall’agenda politica. E’ questo errato convincimento a non consentire un’apertura di dialogo franco e fruttuoso e ad alimentare quella cultura del sospetto che distrugge il capitale civile e quindi la coesione sociale di una comunità. Sono dell’avviso che sia giunto il momento di abbattere antichi steccati facendo avanzare quella “ragionevolezza civica” di cui parla W. Galston.

Ha scritto Aristotele nell’Etica a Nicomaco: “Non bisogna seguire coloro che consigliano all’uomo, in quanto essere mortale, di badare solo a cose umane e mortali. Al contrario, bisogna comportarsi da immortali e vivere secondo la parte più nobile che è in noi: la quale, sebbene per massa sia piccola, per potenza e valore è ben superiore a tutte le altre”. Aristotele non era credente, eppure dice cose che talvolta i credenti dimenticano di dire. Se il messaggio aristotelico venisse accolto – e certamente ciò accadrà – una nuova passione presto si diffonderebbe tra la nostra gente. E l’uomo capace di passione è lo stesso uomo capace di azione, anche politica. Il tempo della politica, infatti, è quello tra il già e il non ancora.

Stefano Zamagni

Immagine utilizzata: Pixabay

About Author