L’utilitarismo costituisce il fondamento su cui si erge il pensiero moderno circa l’uomo e la società. Comprenderne la natura e l’origine è quindi indispensabile per confrontarsi con l’odierna società e per cercar di capire dove essa stia andando.

Allo scopo, presento in forma frammentaria alcune considerazioni tratte dall’opera Critica della ragione utilitaria di Alain Caillé, docente di sociologia all’Università di Caen e fondatore del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans le Sciences Sociales).

Per l’utilitarismo, gli uomini sono per natura esseri interessati, egoisti e calcolatori. A muovere le loro azioni è il solo interesse economico. Su tale base, viene costruito l’edificio utilitarista che investe tutti gli ambiti del sapere e della vita pratica: filosofia, diritto, etica, antropologia, economia, politica ecc.

Tuttavia, la ragione utilitaria non è sempre esistita: non era presente nelle società primitive e nel mondo greco romano, società nelle quali produrre ricchezza non costituiva la prima preoccupazione.

Solo a partire da una data epoca, gli uomini hanno rivelato una “natura” utilitaria. Quattro fattori sono stati determinanti per fare emergere l’utilitarismo come sistema ideologico e teorico dominante: la Riforma protestante, la ragione scientifica, il mercato e il trionfo delle classi medie.

La Riforma fa del soggetto individuale la fonte di legittimazione ultima e apre il campo al capitalismo valorizzando l’attività mondana. Con la predestinazione, tutto è già stabilito in anticipo; resta da dimostrare, mediante il successo economico, di essere tra i prescelti, destinati alla salvezza.

La scienza si occupa solo di ciò che è misurabile e calcolabile. In una modernità che ha cancellato la trascendenza, occorre trovare il concetto generale di una causa dell’azione umana che sia al tempo stesso completamente immanente e teoricamente calcolabile: tale è l’utilità, equivalente del concetto di forza in fisica.

Lo sviluppo dell’economia di mercato rappresenta la terza condizione storica dell’affermazione del paradigma utilitario. Sacche di mercato erano presenti da tempi remoti e sotto diversi cieli. Poi queste sacche hanno cominciato ad estendersi e infine sono giunte a ricoprire Paesi interi, riorganizzandoli sulla base di una logica principalmente mercantile. Ciò è avvenuto quando le classi medie hanno avuto pieno accesso a un ruolo politico.

Il sempre più esteso sviluppo del mercato è infatti una novità indissociabile dall’ascesa delle classi medie, quell’insieme di possidenti che possono contare solo sulla certezza del proprio lavoro. Con la loro affermazione, si è riconosciuto diritto di cittadinanza soltanto a coloro che lavorano. Di conseguenza, occorreva escludere gli oziosi ai due estremi della gerarchia sociale: gli aristocratici da una parte, e i poveri e i reietti dall’altra (che possono essere soccorsi solo a titolo di lavoratori potenziali).

Per gli utilitaristi, fin dall’inizio della storia umana, c’è la scarsità materiale che comporta la necessità di lavorare duramente e di competere per ottenere i beni necessari. Ciò suscita rivalità e concorrenza, facendo degli uomini dei calcolatori egoisti.

In realtà, la scarsità materiale non caratterizzava la società dei cacciatori e raccoglitori (il cui ricordo è rimasto nei miti dei vari popoli come l’età dell’oro). Certamente gli uomini di allora mancavano di molti beni per noi indispensabili, ma un bene è tale solo se ne è avvertito il bisogno, e larga parte dei nostri bisogni è stata creata dai mutamenti intervenuti con lo sviluppo del mercato, e spesso ad arte. Anche nel mondo greco-romano, si era cittadini soltanto se si disponeva di tempo libero dal lavoro, dedicato all’otium, indispensabile alla vera vita e all’autonomia del soggetto. È la Riforma che introduce il concetto che si è vero uomo solo se si lavora duramente. Così emerge la scarsità, intesa come risultato di sempre nuove esigenze da soddisfare, e si impone il richiamo al guadagno come esigenza primaria.

Gli utilitaristi vedono le società innanzi tutto come organismi produttivi la cui sola finalità è l’aumento del benessere materiale.

Nei confronti del terzo mondo, il messaggio utilitarista recita: fate come l’Occidente, adottate la via liberale e il mercato libero, e uscirete dalla povertà. Ma, osserva Caillé, i mercati non funzionano nel vuoto istituzionale, giuridico e sociale, e le società non sono esclusivamente o principalmente macchine per produrre. Prima di produrre, è necessario che le società si costruiscano, si pensino e si legittimino. Anche in Occidente, i fermenti della crescita economica si sono sviluppati attraverso un lungo percorso con l’indebolimento delle vecchie strutture e l’affermazione di una nuova classe sociale, quella media. Niente di ciò è presente nel terzo mondo. Le devastazioni in esso prodotte dalla colonizzazione e dall’imperialismo non sono principalmente di ordine economico (ineguaglianza degli scambi, rapina di materie prime), ma derivano soprattutto dalla distruzione dei meccanismi di produzione e riproduzione delle società tradizionali e dei simbolismi attraverso i quali i loro membri davano senso all’esistenza.

Alcuni Paesi (Giappone ieri, Cina e India oggi) hanno saputo conservare un’immagine di se stessi solida e sicura, forgiandosi un’identità nazionale contrapposta al modello dominante in Occidente, e, sia pure imitandone non pochi aspetti, hanno saputo appoggiarsi a tradizioni antiche di economia di mercato. Ma nella più parte dei Paesi (soprattutto in quelli africani), nei quali esistevano solo embrioni di mercato e frammenti di Stato, oggi va reinventato l’intero edificio della società. Il mercato si diffonde in questi Paesi a ritmi più rapidi della capacità del tessuto sociale di cicatrizzare le ferite che esso gli infligge, e genera catastrofi: urbanesimo, bidonville, criminalità, corruzione, ecc.

Ci può essere sviluppo più o meno equilibrato del mercato solo nella misura in cui i rapporti sociali vi si prestino. Le vie dello sviluppo sono politiche e simboliche prima che economiche.

Anche la democrazia non si riduce a una formulazione giuridica astratta, da applicare meccanicamente in ogni dove. Esiste realmente soltanto se iscritta nel cuore dei rapporti sociali e nella dinamica di conflitti sempre particolari. Occorre pensare alle diversità delle forme che la democrazia può assumere senza rinnegare l’aspirazione universalistica di cui è portatrice.

Gli utilitaristi considerano razionali e democratiche soltanto le società moderne che hanno spazzato via le ultime vestigia di tradizioni arbitrarie e hanno sostituito il commercio e la comunicazione alla violenza. Invece, per Caillé, la democrazia rappresenta il regime politico naturale e spontaneo dell’umanità. Proprio nel campo della democrazia, vanno inserite le società preistoriche, quelle tribali e quelle delle città-stato.

Una simile rappresentazione fa storcere il naso a chi considera la democrazia solo dal punto di vista del mondo moderno, le democrazie parlamentari fondate sulla coppia costituita dallo Stato e dal mercato. Ma, secondo Caillé, proprio le forme di democrazia premoderne ci danno una grande lezione mostrando che la comunità non può derivare da calcoli interessati, ma può nascere soltanto dalla soddisfazione di necessità profondamente radicate. Nessuno infatti è disposto a morire per il tasso di crescita, ma lo si può fare per la patria, per la nazione o per l’insieme reale o immaginario di coloro ai quali si è legati attraverso i rapporti personali, quei legami che nutrono la fiducia, la capacità di dare e l’attesa di ricevere; processo fiduciario che moltiplica le possibilità e le energie. Può infatti esistere legame democratico soltanto tra coloro i quali hanno sentimento di formare una comunità e, per tale via di appartenenza, sono in grado di elaborare le virtù civiche senza le quali la democrazia necessariamente deperisce.

Quale è il grado di conformità delle società moderne all’ideale democratico da esse proclamato che si ispira ai valori di libertà, di eguaglianza e di solidarietà (o fraternità), tre valori primordiali ma non facilmente conciliabili?

Secondo Caillé, si può sostenere con argomenti altrettanto seri che la società occidentale sia la più egualitaria tra tutte quelle mai esistite o, al contrario, che riproduca e moltiplichi le ineguaglianze. Questa duplice valutazione è possibile perché si assiste, da un canto, alla crescita delle ineguaglianze obiettive, e, dall’altro, allo sviluppo dell’immaginario dell’eguaglianza delle condizioni, che, pur restando immaginario, produce effetti: infatti, tutti, malgrado le enormi differenze di reddito, ormai ritengono di appartenere alla classe media.

Contraddittorio è anche il grado di libertà che ci viene garantito. Oggi si è sempre più liberi, ma alla condizione che la libertà non esca dai limiti dell’esistenza privata e non pretenda di enunciare una parola pubblica che possa sortire effetti altrove che nel segreto dell’urna o nella confidenzialità del privato. Tuttavia, il freno principale all’invenzione democratica e la causa del declino del politico è, in primo luogo, l’immaginario utilitarista che considera immaginabile soltanto ciò che non oltrepassa il suo intendimento: la riduzione della ragione di Stato alla sola competenza economica, reale o presunta.

Occorre, scrive Caillé, riaprire il dibattito sulla realtà della democrazia nelle società moderne, senza mettere in discussione la struttura istituzionale degli Stati parlamentari e il ruolo dei partiti. Bisogna innestare la democrazia sulla vita sociale al fine di alimentare quegli interrogativi politici che potrebbero infonderle vita e dinamismo.

L’autore non intende, con questo libro, né proporre un ritorno al passato, né presentare un programma politico o indicare soluzioni a mali la cui diagnosi è ancora da meglio definire, ma desidera dimostrare la necessità di sbarazzarsi di certi automatismi del pensiero odierno per orientarsi diversamente o quanto meno per interrogarsi sul dove si stia andando.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte

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