Quella che segue è la seconda parte dell’articolo pubblicato ieri (CLICCA QUI)
Gli atlantisti idealisti affermano che l’Ucraina ha accettato lo “scippo” delle armi nucleari dislocate sul proprio territorio in cambio di precise garanzie di sicurezza. I realisti replicano che negli anni ’90 tutto il mondo era angosciato dal rischio della proliferazione nucleare e che gli Stati Uniti in primis favorirono l’accentramento di tali ordigni, costruiti dall’ex Unione Sovietica e dislocati su un territorio che ne era parte integrante, nelle sole mani russe. Quanto alla sicurezza: l’atlantista idealista pone in rilievo il tradimento delle garanzie assicurate al neonato Stato ucraino e respinge le accuse rivolte alla presunta disinvoltura con cui l’Occidente ha incorporato nell’Alleanza i Paesi confinanti; ma il realista, trincerandosi anche dietro l’iconica sentenza di papa Francesco che aveva deplorato “l’abbaiare della NATO ai confini della Russia”, dispiega una cartina geografica e indica il confine che separa l’Ucraina dalla Federazione, lunghissimo (1576 km), privo di ostacoli naturali e rievoca il discorso con cui il presidente Putin alla conferenza di Monaco del 2007 aveva chiesto con forza l’istituzione di un’architettura globale per la sicurezza reciproca minacciata dalle pulsioni unilateraliste degli Stati Uniti; il realista citerà anche le memorie di Robert Gates, all’epoca segretario USA alla Difesa (ex militare e grande civil servant rispettato da repubblicani e democratici, lavorò sia per Bush che per Obama) il quale scrisse che gli accordi con Romania e Bulgaria per la rotazione delle truppe furono una “provocazione inutile” bollando il tentativo di far entrare Georgia e Ucraina nella NATO, come “sconsiderata ignoranza nei confronti di ciò che i russi consideravano un loro interesse vitale”.
L’atlantista idealista deride l’imbelle invocazione alla trattativa e al negoziato: anche a Monaco nel 1938 fu tentata la via diplomatica per fermare la macchina bellica nazista che di lì a poco avrebbe scatenato la Seconda guerra mondiale; ma si rivelò velleitaria, meglio avrebbero fatto francesi, inglesi e americani a optare per una decisa reazione preventiva. Così oggi l’autocrate russo, vera reincarnazione di Hitler e paradossalmente tenta addirittura di giustificare l’aggressione presentandola sotto le spoglie di una lotta contro un fantomatico nazismo ucraino!) si prende gioco dei moderni nipotini di Chamberlain e ingoierà boccone dopo boccone l’intera Europa. Soltanto una postura assertiva dell’Occidente globale, in quella che si configura come una lotta fra la luce del diritto e della libertà e le tenebre della tirannia, potrà indurlo a desistere.
I realisti disincantati deridono questa visione a loro dire apocalittica e storicamente priva di fondamento. Innanzitutto se, in determinate circostanze, un negoziato non è andato a buon fine ciò non significa che “qualsiasi” negoziato debba esitare fatalmente in un fallimento. La Russia inoltre è il Paese più grande al mondo, ha una bassa densità demografica, è ricchissima di risorse naturali: quali interessi potrebbero spingerla al folle azzardo di tentare la conquista dell’intera Europa occidentale? E quando mai negli ultimi 400 anni ha minacciato il continente? Vi sono state frizioni con i Paesi confinanti (Polonia, Svezia, Impero Ottomano, cose che accadono in ogni emisfero e in ogni epoca della storia) ma la proiezione europea della Russia si è tradotta in uno sforzo di emulazione: Pietro il Grande impone ai boiari il taglio della barba, visita ammirato Francia e Olanda per carpirne le competenze tecnologiche e costruisce su un terreno paludoso, sottratto ai vicini svedesi, una città nuova di zecca che porterà il suo nome, vero anello di congiunzione eurasiatico. La Russia per il resto ambisce a null’altro che a un forte ancoraggio territoriale in ambito slavo, il Russky mir (Mir significa Pace e ordine, l’equivalente del concetto latino di pax) insieme a uno sbocco, a nord e a sud, sui mari; è sulle vie d’acqua che la Russia rompe il suo isolamento secolare: fu questa infatti l’intuizione geopolitica di Pietro, la costruzione di una forte flotta militare e mercantile è la sua terza grande riforma, accanto a quelle istituzionali e urbanistiche.
Dipingere il Presidente russo, che innegabilmente governa con piglio autocratico, come un nuovo Hitler pronto ad aggredire le democrazie europee, secondo i realisti è pura propaganda: forse l’Occidente in crisi di identità ha bisogno di un nemico da odiare per rinserrare le fila e ricostruire un consenso interno che si va vieppiù sfilacciando? Il linguaggio d’odio contro la Russia e contro il suo Presidente richiama alla memoria del realista quei meccanismi di manipolazione di massa descritti all’inizio del ’900 da Gustave Le Bon nella sua Psicologia delle folle (“anche un individuo di alto livello culturale o professionale quando si fa folla reagisce secondo elementari schemi emotivi e irrazionali”), indagati in tempi più recenti da Chomsky e declinati in forma narrativa da Orwell: i 5 minuti di odio contro Goldstein, il nemico del popolo nel romanzo 1984 non assomigliano all’astio suscitato dai media occidentali contro il presidente Putin?
Il recente cambio di passo della postura statunitense ha ulteriormente esaltato la differenza fra i due approcci che abbiamo delineato: sconcerto di fronte a quello che appare un tradimento del popolo aggredito da una parte e dall’altra sorniona presa d’atto del fatto che il nuovo Presidente americano, scettico a riguardo delle proiezioni idealiste di un establishment imbottito di ideologismi democratici e di sogni unilateralisti neocons, abbia sposato il realismo del grande e controverso politologo J. Mearsheimer; il quale considera l’attacco russo alla stregua di una guerra preventiva intesa a proteggersi da una minaccia esistenziale (“l’Occidente si stava muovendo nel cortile di casa della Russia…”) prescindendo da condanne e giustificazioni poiché non è la morale la chiave corretta per interpretare le relazioni fra gli Stati, sospese fatalmente in uno spazio hobbesianamente anarchico e conflittuale.
Gli idealisti improvvisamente avvertono la debolezza e l’irrilevanza dell’Europa. La tesi dei realisti condivisa dai pacifisti – di cui non abbiamo ancora parlato ma di cui diremo tra breve – è invece: ci siamo adeguati supinamente ai diktat anglosassoni, abbiamo imposto sanzioni che hanno danneggiato più noi che il destinatario, subito senza un plissé il sabotaggio del North Stream 2 e accettato la dissoluzione di quella cooperazione eurasiatica vista con grande malumore oltreoceano che avrebbe reso forti noi e le nazioni slave (Ucraina compresa!). Ora che gli USA idealmente aprono un varco nella nuova cortina di ferro noi, anziché approfittarne (e sarebbe nostro interesse!) e assecondare da prudenti comprimari il negoziato, piagnucoliamo perché non ci hanno riservato neppure uno strapuntino in quel di Riad, e ci illudiamo di riacquistare sostanza e peso politico perpetuando l’ostilità russofoba e sventolando le insegne del nazionalismo ucraino.
Per il realista la questione non è imperniata sul tema, comprensibile e legittimo, della riqualificazione dei sistemi di difesa (Rearm o Readiness… forse mentre scriviamo l’ufficio marketing della Commissione ha sfornato un nuovo brand name) ma sulla politica: armi per offendere e difendere non si sa chi e perché, oppure armi per assicurare deterrenza nella logica tutta realista (qui si evoca non solo Mearsheimer ma anche il grande Kennan) del contenimento di una controparte con la quale comunque si coopera e commercia con reciproco vantaggio?
Ma i pacifisti? Non sono “amorali” come i realisti. Condividono con l’atlantista idealista la condanna senza se e senza ma dell’aggressione all’Ucraina. Ma il ripudio della guerra non ammette deroghe. L’invio di armi all’Ucraina utilizzata come proxy nel confronto con la Federazione non frenerà i lutti e le distruzioni; e il riarmo europeo ne mina le radici ideali, oltre ad assorbire enormi risorse che meriterebbero altre destinazioni (si citano la sanità, la reindustrializzazione, il lavoro). Gli idealisti – che ora, dopo il brusco voltafaccia americano, possiamo definire idealisti europeisti –li trattano da ingenui e li sospettano d’intelligenza con il nemico: d’altro canto non erano stati proprio i Padri fondatori a suggerire la nascita di una Comunità di difesa insieme a quella del carbone e dell’acciaio? Pace certo, ma una pace giusta. E non dimentichiamo mai che ci sono un aggressore e un aggredito. I pacifisti e i realisti chiedono di precisare il concetto di pace giusta: reintegro di tutti i territori, Crimea compresa sotto la sovranità di Kiev? Non vi risuona, sogghignano i realisti, un’assonanza con lo slogan Pro Pal “from the river to the sea?” (che comporterebbe la sparizione di Israele ndr) E non sarebbe meglio, aggiunge con finezza un pacifista come Zamagni, parlare di pace “equa” e negoziata? Gli europeisti idealisti rivendicano la loro immutabile coerenza dall’inizio del conflitto a oggi e denunciano l’altrui sindrome di Stoccolma. I loro interlocutori ne sottolineano una certa superficialità analitica e la sindrome da disco rotto.
Esiste poi un’evidente correlazione fra la postura da assumere nei confronti della Russia e la questione dell’identità europea da (ri)costruire, ma è un tema amplissimo che avremo modo di affrontare in futuro.
In quest’articolo abbiamo cercato di fornire una semplice mappa per razionalizzare i blocchi concettuali ed emotivi intorno ai quali ruota il dibattito. Si tratta naturalmente di astrazioni utili a fini epistemologici: nel concreto la gran parte degli aventi causa si riconoscerà “prevalentemente” in una delle tre categorie – atlantisti/europeisti idealisti, realisti disincantati, pacifisti – ma pochi, credo, risulteranno appartenere “esclusivamente” a una sola di esse. All’interno di ciascuno “schieramento” poi troveremo, è fisiologico, soggetti più moderati e altri più radicali.
La discussione, pur vivace e polemica, va mantenuta libera e aperta all’ascolto, dialettica, senza anatemi reciproci.
Andrea Griseri
Pubblicato su www.associazionepopolari.it