Quando si accosta un determinato evento oppure si intende conoscere una certa persona, comprenderne gli atteggiamenti, le vicende che la coinvolgono, è necessario adottare una modalità che sia appropriata e pertinente all’oggetto della nostra attenzione.
Ha senso discutere – come si sta facendo da più parti – dei fatti vaticani dell’ultimo decennio, a cominciare dalle dimissioni di Papa Benedetto, come se si trattasse di una “spy-story” ? Adottando uno stile narrativo da “thriller”, sia pure in chiave teologico-spirituale, evocando analogie con l’aura misterica che spesso avvolge i fatti di mafia, come è stato osservato da un autorevole giornalista ? Oppure, lasciando intendere complotti, cercando, ad ogni modo, intonazioni ed argomenti capaci di sollecitare una certa bramosia pruriginosa di curiosità sensazionali o di scandali che si prestino ad alimentare le fantasie popolari e ad incrementare l’ audience ?
Il cristianesimo e, quindi, ciò che vi concerne, ha, per sua natura, una visione dello scorrere del tempo trascendente, a tal punto che pure l’ immanenza dei fatti che via via succedono è attraversata dalla impercettibile traccia di un tempo “altro” cui viene rinviata, misteriosamente, la nostra quotidianità. Si tratta, dunque, di calibrare lo sguardo e non falsare pregiudizialmente la prospettiva.
La nostra conoscenza – se non ricordo male è Heidegger a sostenerlo – è preceduta da un’ intenzione originaria che funge da cornice e la orienta. Se tra Benedetto e Francesco taluni vogliono vedere discontinuità o addirittura dissonanze sostanziali , pur di piegarle a motivo strumentale di una contesa politica pregiudiziale, costoro non mancheranno di soffiare sul fuoco finché possano dire di averne trovate. Ma il contesto – la fonte originaria comune, secondo la dottrina cristiana, della loro investitura – non dovrebbe, al contrario, suggerire uno sguardo orientato a comprendere ed apprezzare, piuttosto, dove siano la continuità e la consonanza?
Dove e come avvenga il passaggio del testimone tra l’uno e l’altro? E saper cogliere questo tramite non significherebbe, forse, comprendere meglio taluni caratteri, anche profani, del nostro momento storico? Papa Benedetto affronta, a viso aperto, i nodi controversi che attraversano la cultura del vecchio continente, li riconduce alle domande irrevocabili ed inesauribili che abitano il cuore dell’ uomo, di fronte alla crisi della modernità assume il compito di strenuo difensore di quella ragione, in cui mostra di credere più di quanto non faccia chi, dopo averla idolatrata, se ne mostra, in un certo senso, deluso o ne paventa i limiti.
Si tenta, da parte di una certa destra cattolica, di addossargli i panni del “conservatore”, quasi si volesse sdoganare, suo tramite, e nobilitare una tale declinazione in chiave politica. Senonché, vale, per Benedetto, l’ invito di Tommaso Moro a trasmettere la fiamma piuttosto che conservare la cenere. Pone, infatti, e difende con mano ferma e sicura i capisaldi della fede non per arroccarsi , secondo una postura difensiva, in un fortilizio inattaccabile, bensì per illuminare il sentiero che si inoltra e via via si amplia addentrandosi in un nuovo corso, ancora nebuloso ed indecifrabile, della storia, alla ricerca di un nuovo umanesimo, nella chiara e serena consapevolezza, come afferma espressamente, della perenne novità di Dio.
Costringerlo nella postura del “conservatore”, a maggior ragione secondo la suggestione prettamente politica di tale attributo, significherebbe tradirne la fede e soffocare la potenza del suo pensiero. Fede e pensiero che approdano a quel “Deus charitas est”, che rappresenta la sentenza rigorosamente teologica, la quale, a sua volta, giustifica l’audacia di quel “etsi Deus daretur”, con cui Benedetto incalza, in un certo senso provoca, ma soprattutto incoraggia e cerca di orientare lo stesso mondo civile.
Altro che conservatore, Benedetto XVI crede, e nel contempo “sa”, che, se mai tale invito venisse accolto, nella vita personale di ognuno e, non da meno, della collettività, quella coerenza interna che scorge nel cattolicesimo orienterebbe verso forme di forte armonizzazione anche il discorso pubblico. Ma soprattutto l’ approdo, in uno della fede e del pensiero di Benedetto, alla “charitas” è il punto in cui la sua visione prettamente teologica e quella espressamente pastorale di Francesco si connettono, in modo del tutto naturale. Rappresentano – se vogliamo anche secondo le rispettive declinazioni storiche, geografiche e sociali, quella europea e quella latino-americana – ad un tempo, la domanda e la risposta che l’uno rivolge all’altro, in una sintonia che non può essere messa in discussione, tanto meno da un travisamento e da una banalizzazione pretestuosamente pseudo-politica del loro insegnamento.
Domenico Galbiati