Chi vuol bene a Trump dovrebbe avvertirlo del rischio che corre, infilandosi in una strategia sghemba.
Al di là del terremoto che ha provocato in queste settimane, sembra non abbia capito la sostanza delle cose e, cioè che siamo entrati, in ogni caso, in un contesto del tutto differente, irreversibilmente multipolare. Il che determina la formazione di un campo di forze inedito, distribuito su linee gravitazionali che costringono, anche le grandi potenze, a muoversi dentro un determinato alveo e non altrimenti.

L’orientamento di Trump, al contrario, sembra sostanzialmente volto al passato. Immagina, cioè , un rinnovato “duopolio”, ispirato alla “proprietà commutativa”, tale per cui se muta l’ordine degli addendi la somma non cambia. Ritiene, cioè, che basti sostituire l’Unione Sovietica con la Cina nella catena di comando del mondo, declassando la Russia al ruolo di terzo incomodo, che prima spettava a Pechino, così da conservare agli Stati Uniti il ruolo apicale del sistema. Ma non è più così.

In un contesto multipolare, il focus delle relazioni internazionali non è più solo il “confronto” diretto – vis a vis – tra le due superpotenze, appunto in termini di forza e di deterrenza . Si tratta, piuttosto, di creare rapporti politici, anzitutto, nel segno della condivisione dei valori della democrazia, relazioni commerciali, cooperazioni infrastrutturali e tecnologiche, investimenti comuni, collaborazioni in campo culturale ed accademico, impegni di reciproca integrazione, guidati da una condizione di pari dignità e di rispetto dell’indipendenza dei popoli, che l’antichissima, sottile diplomazia cinese ha dimostrato – vedi l’Africa – di saper condurre con cognizione di causa e secondo un disegno strategico di lungo termine.

Non basta essere i più lesti ad estrarre la pistola dalla fondina. C’è un mondo intero di povertà , di sofferenze umane, di diseguaglianze in cui troppi bambini appena nati devono trasformarsi in guerrieri per combattere la battaglia della loro sopravvivenza. E troppi la perdono.

Fino a che punto le democrazie possono sentirsi pienamente legittimate nei loro valori, se non sentono l’urgenza di una ribellione morale in un quadro talmente grave di dissipazione del “valore umano” ?

Ad ogni modo, l’unica variante che forse si intravede è una diversa declinazione del concetto di “sfere di influenza” che – questa almeno pare l’intenzione, difensiva, di Trump – potrebbero essere definite in termini geo-politici e territoriali più rigorosi.

Sembra che Trump si muova verso una sorta – per quanto si tratti di un ossimoro – di “imperialismo isolazionista”. Come se, protetto ad Est e ad Ovest dalla cintura di sicurezza degli Oceani, volesse riservarsi uno “spaccato” di mondo, dall’Artico e dalla Groenlandia, passando per Panama ed il Golfo del Messico ribattezzato, forse, possibilmente, con un diverso approccio, fino alla Terra del Fuoco ed all’Antartide. Spicchio di mondo da trasformare nel “giardino di casa”. Per questo ci vogliono i soldi: tanti, maledetti e subito.

In quanto all’Ucraina ed all’Europa sono concesse, in comodato d’uso, a Putin per comprarne la benevolenza ed averlo dalla sua parte contro la Cina. Ove poi i rapporti tra Mosca e Pechino persistessero l’Europa sarebbe pur sempre la trincea più lontana su cui combattere per non avere la guerra in casa.

La cartina di tornasole di questo disegno ipotetico, che pure si mostra unendo i trattini delle mosse di Trump, potrebbe essere il destino di Taiwan. Altro che “Great America”. Nella nuova amministrazione americana sembra prevalere – lo sappiano o meno, storditi dal loro stesso vociferare confuso – non un atteggiamento di aperta competizione con la Cina, ma piuttosto una postura di arroccamento e di preventiva difesa dal Drago Cinese.

La seconda linea strategica sbagliata di Trump – ma qui sorvolo per ragioni di spazio – consiste nel porsi a capo dell’ “internazionale” dei conservatori, nella misura in cui anche tale atteggiamento concorre a tagliare ponti e ad incardinare i rapporti con gli alleati non in funzione della comune e costante ispirazione democratica, bensì declinandoli in ragione di apparentamenti politici, di volta in volta, contingenti e transeunti.

Il terzo errore cui rischia di andare incontro sta nel non rendersi conto che la competizione con la Cina è molto più che non una questione di sfere di influenza, rivalità tecnologiche o commerciali. Si tratta anche di una competizione necessariamente culturale, non facile da sostenere e per la quale abbiamo bisogno di avere consapevolezza piena di noi stessi, dei valori in cui effettivamente crediamo.

Con i cinesi ci giochiamo una partita che tocca quella stessa comprensione di sé dell’umanità che è costantemente in evoluzione ed oggi particolarmente incalzante. La Cina e’, e si considera, un mondo “altro”, alternativo all’ Occidente in modo radicale e netto. Un mondo dotato di una antichissima capacità diplomatica, che pur passando, da
almeno mille anni, da una dinastia all’altra è da sempre convinto che, a lungo termine, sarà l’Occidente a chiedere di potersi recare a Pechino per “baciare la pantofola” del Celeste Imperatore. Ed, intanto, fedele alla dottrina di Confucio, pazientemente attende e trama.

Quel mezzo sorriso enigmatico perennemente stampato sul volto indecifrabile di XI Jinping è , in certo qual modo, la rappresentazione plastica di questa attitudine cinese a vincere le guerre senza impegnarsi in plateali battaglie, lasciando, piuttosto, che siano i suoi nemici ad elidersi a vicenda.

Domenico Galbiati 

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