L’idea brillante di definire Trump come un moderno Re Lear, di scespiriana memoria, chiuso nella sua fortezza di Mar-a-Lago in Florida, è stata dell’autorevole New York Post di Rupert Murdoch. Nel durissimo editoriale del Post del 28 dicembre, Trump veniva invitato a smetterla con la sua sinistra sceneggiata, avvertendolo che continuando nelle sue accuse di frodi mai provate, stava di fatto rovinando il suo legato a tutto vantaggio dei democratici. Gli ultimi risultati elettorali in Georgia hanno poi confermato la fondatezza di questi timori.

Poteva bastare la defezione dei media di Murdoch, suo grande sostenitore, a convincere Trump che era ormai ora di mettere fine a un degradante spettacolo? Invece dopo l’incredibile assalto al Campidoglio, andato in onda in  mondovisione il 6 gennaio a Washington è stato evidente a tutti che “the Donald” aveva già previsto di essere protagonista della tragedia di Capitol Hill , ricevendo, dopo Re Lear, un nuovo appellativo ancora più drammatico, quello di “Dio del massacro”  dal titolo della commedia della drammaturga francese Yasmina Reza, “Le Dieu du carnage”.

Per una personalità paranoica, sempre più distante dalla realtà e inchiodata al potere, ma abituata alla politica spettacolo mutuata dalla televisione e dai social, con i relativi messaggini su twitter, ci voleva un finale da colpo di teatro, questa volta superando ogni immaginazione e lasciando sul campo morti e feriti. Ma questa volta non si è trattato della solita fiction ma di un reality da brivido con la profanazione della sede per eccellenza della democrazia americana, il Campidoglio di Washington, sede del Congresso, chiamato in quelle ore a ratificare la vittoria elettorale di Biden. Oltraggio, rabbia, inquietudine, smarrimento, ha scritto Maddalena Maltese per l’Agenzia SIR.

Le scene di un Campidoglio preso d’assalto e vandalizzato hanno scosso gli Stati Uniti. Ma non solo- aggiungo io- se è vero che le cancellerie europee hanno tempestivamente lanciato l’allarme unanime con il laconico “attacco alla democrazia” e la richiesta urgente che venisse rispettato il voto del popolo americano e ristabilita la legalità. Dietro il pressante invito di Joe Biden, il Presidente Donald Trump, nel tardo pomeriggio dell’indimenticabile 6 gennaio 2021, con parole incredibili si è rivolto agli invasori del Congresso, violato per la prima volta nella sua storia, salutandoli “siete speciali, vi vogliamo bene” e invitandoli ad andare a casa. Nella notte il Congresso ha potuto riprendere i lavori, a seguito anche della dichiarazione del coprifuoco e dell’arrivo della Guardia Nazionale, portando a termine la validazione delle schede elettorali e proclamando Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti.

Ma come è potuto accadere tutto questo nel cuore della democrazia americana, autocandidatasi da troppo tempo a guardiano delle libertà democratiche e della pace nel mondo grazie anche alla superiorità del suo armamentario militare? A questa domanda non sarà facile rispondere ma gli Stati Uniti saranno obbligati a farlo soprattutto per l’opinione pubblica interna e internazionale che non si accontenterà del laconico messaggio del neo Presidente Joe Biden che, alla fine della bagarre a Capitol Hill, ha sentito il dovere di dire “Ha vinto il popolo, ha vinto la democrazia”. Non è neppure un caso che per dare una figura a Trump sia stato scomodato Shakespeare con la sua tragedia Re Lear (1606), incentrata essenzialmente sull’enigma del potere.

Questa volta  però abbiamo assistito in mondo visione ad un esempio di drammaturgia contemporanea incentrata sul grande incubo del nuovo secolo: la tragedia del sovranismo. E ’il politologo statunitense Francis Fukuyama che nel 2019 ha lanciato l’allarme sul fenomeno dei populismi-sovranismi con il suo libro Identità: “Oggi le istituzioni democratiche di tutto l’occidente sono minacciate da forme politiche identitarie fondate sulle idee di nazione, religione, razza, genere, che assumono le sembianze dei vari populismi anti immigrazione e anti Europa”. Non si tratterebbe delle conseguenze della crisi economica e delle delusioni derivate dalla globalizzazione neo-liberista ma di qualcosa di più profondo che riguarda la nostra identità. Rispondere a questa attesa di riconoscimento significa anche ricostruire una politica che sostenga invece che minare le fondamenta della democrazia.

L’area cattolica americana è stata molto severa su questo epilogo drammatico del trumpismo. Il gesuita Bryan Massingale è durissimo sull’insurrezione al Capitol Hill: “Questo è l’inevitabile risultato di quattro anni di bugie del Presidente Donald Trump che demonizza i suoi avversari e che compie inspiegabili abusi di potere.  Quattro anni alimentati dal risentimento razziale, dall’ansia e dalla paura dei bianchi”.

Oggi è proprio l’America della fede e delle fedi che si trova a dover rispondere anche degli abusi sui simboli religiosi usati al servizio della retorica presidenziale e dei suoi supporter. Per Johnny Zokovitch, direttore esecutivo di Pax Christi USA, “gli eventi che si sono svolti al Campidoglio sono il risultato della demagogia di un uomo, il presidente Trump, e del fallimento di tutti coloro che hanno scusato, trascurato, consentito o anche incoraggiato l’odio e la retorica divisiva che ha definito il mandato di questo presidente”.

Eppure il trumpismo non è facile da definire perché- ci dice Fukuyama- è l’America che in buona parte è trumpiana; non è da sottovalutare la buona tenuta elettorale di Trump nonostante la sconfitta, in gran parte indotta dalla pandemia che ha colpito duramente gli Stati Uniti. Trump è riuscito a tenere comunque compatti dalla sua parte i maschi bianchi della working class: sono coloro che temono la perdita di identità, che si sentono minacciati. Il trumpismo non si può capire senza l’altalenante personalità di Trump che sicuramente va collocato nella scia del populismo che con lo slogan “America first”, diventa suprematismo e nazionalismo. “Nessuno ci può fermare. La tempesta li sorprenderà. Libereremo Washington dal buio per restituirla alla luce”. La profezia affidata da Ashli Babbitt al suo ultimo tweet non si è realizzata. A finire inghiottita dalle tenebre è stata proprio la veterana dell’aeronautica, focosa sostenitrice di Trump e prima delle vittime del giorno più lungo della storia americana.

Ma il combattimento tra tenebre e luce, in una visione apocalittica, non è estraneo alla stessa cultura della destra conservatrice cattolica e americana. L’aveva intuito da tempo un uomo “senza eserciti” e ne aveva dato anche l’allarme. Chi era? Il vaticanista Marco politi ci aiuta a riconoscerlo: “ Non è un politologo, non è un diplomatico, non è un dirigente di partito. E’ il figlio di un emigrante italiano in Argentina, risiede a Roma. Si chiama Jorge Mario Bergoglio. Il 23 febbraio 2020, a Bari, il Papa parla ai Vescovi cattolici dell’area mediterranea riuniti in conferenza per discutere di migrazioni e accoglienza. Il virus del Covid-19 si sta diffondendo in Europa e suscita paura. Il pontefice ricorda un altro virus, la peste dell’ideologia fascista anti-liberale che ha contagiato il secolo scorso. “A me fa paura- esclama a braccio- quando ascolto qualche discorso di alcuni leader delle nuove forme di populismo.

La retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio”. Nel magistero di Papa Francesco la categoria politica del populismo è stata approfondita soprattutto nell’ultima enciclica Fratelli Tutti al capitolo V dedicato alla migliore politica: il pontefice confessa di aver faticato a distinguere il populismo dal popolarismo quasi a parafrasare il titolo dell’ultimo libro di Bartolomeo Sorge “Il populismo che fa male al popolo” ma che alla fine gli è risultato chiaro che il populismo è un tradimento del popolo.

Biden si accinge ad un compito difficilissimo, quello di rimarginare la spaccatura dell’elettorato americano alle ultime elezioni presidenziali e di superare la ferita di Capitol Hill: troverà in Papa Francesco un alleato prezioso. Vale la pena concludere con una riflessione amara: Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, ha definito la missione di Papa Francesco con parole indimenticabili, “Un pontificato crocifisso”. Proprio negli Stati Uniti è andata in onda, negli anni del trumpismo, la più grave offensiva contro Bergoglio, condotta senza scrupoli e senza esclusione di colpi dalla peggiore destra cattolica, collusa con le centrali dei poteri forti dell’economia e della finanza americana,  e sempre blandita, non a caso dal noto Monsignor Viganò.

Varrebbe la pena leggere l’intervista di Steve Bannon a Monsignor Carlo Maria Vigano’, svoltasi nei primi giorni di gennaio 2021 per avere contezza della pericolosità di certe consorterie che utilizzano un linguaggio simbolico tipico delle sette apocalittiche e che gettano nella confusione e nell’inganno numerosi frequentatori di blog diffamatori. Trump sarebbe uomo della luce- secondo questi sedicenti cattolici- e Biden ovviamente una figura teleguidata dal grande complotto, the great reset.

Non c’è bisogno di dire in quale ruolo viene collocato papa Francesco. Fede, speranza e carità sono le virtù teologali che aiutano i cristiani a operare nel mondo, In questo tempo straordinario di pandemia è soprattutto la speranza a illuminare il cammino dell’umanità per avere soprattutto fiducia che le tenebre, quelle vere, non prevarranno (Matteo 16,18).

Antonio Secchi

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